Il 5 febbraio del 1885 millecinquecento bersaglieri, guidati dal colonnello Tancredi Saletta, occuparono pacificamente il porto di Massaua in Eritrea. La ricerca di “un posto al sole” comportò anche politiche repressive nei confronti delle popolazioni locali. Una pratica diffusa fu quella della deportazione. Si pensava così di intimorire la gente e di “allontanare” gli avversari più intransigenti all’occupazione italiana. Gli oppositori furono incarcerati in molti penitenziari del sud Italia: Gaeta, Nisida, Procida, Santo Stefano, Lecce. Il provvedimento veniva preso anche solo per semplice sospetto. La pratica delle deportazioni si interruppe, una prima volta, nel 1893. L’opinione pubblica italiana fu così colpita in negativo che il governo ordinò il rimpatrio dei deportati. Molti, però, erano nel frattempo deceduti. La pratica di portare in luoghi italiani particolarmente isolati i prigionieri e i sospetti di attività sovversive riprese con la guerra contro la Turchia scatenata per conquistare la Libia nel 1911. Fu la risposta feroce e violenta all’insurrezione araba di Sciara Sciat. Giolitti era stato male informato. Credeva che gli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica vedessero con favore l’arrivo delle nostre truppe.
Il 29 ottobre 1911 duemilanovecentosettantacinque prigionieri arrivarono sull’isola di San Nicola alle Tremiti. Altri finirono a Ponza, a Gaeta, a Favignana e a Ustica. In quest’ultima isola ne morirono 161 nel 1911 e altri 141 fra il 1915 e il 1916. Le scarse condizioni igieniche e il cibo scadente furono le cause di molti decessi. Così un’altra volta si decise di rimpatriare una parte dei deportati: 917 libici. Tra i deportati di Favignana c’era anche il poeta Fadil Hasin Ash – Shalmani. Nei suoi versi racconta di celle piccole, senza luce, con le porte di ferro serrate. Di una giara di acqua e di una bombola di cherosene per camerone, di giacigli fatti di paglia sudicia. La forte promiscuità dei cameroni favorì il diffondersi di malattie infettive: tbc, polmonite, bronchite, tifo, colera, deperimento, malattie intestinali. La depressione colpì gli internati, alcuni persero la ragione non sapendo più chi fossero e dove fossero.
L’idea di rinchiudere la maggior parte degli abitanti della Cirenaica per isolare i combattenti guidati da Omar el-Mukthar, settantasettenne leader della resistenza libica, detto il Leone del deserto, impiccato dagli italiani dopo un processo sommario l’alba del 16 settembre del 1931 nel campo di Soluch, a sud di Bengasi, venne al generale Badoglio. Scriveva Badoglio a Graziani “Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomesse. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione“. Infatti, dei 110.000 internati ne morirono quasi 40.000, non solo per la fame e le epidemie ma anche per le frequenti decimazioni. Siamo ormai nell’Italia fascista, quella della cosiddetta “Quarta sponda“, cioè la Libia costiera. Era nel frattempo iniziata la campagna d’Abissinia. Un’aggressione all’altro unico stato indipendente dell’Africa, assieme alla Libia. La guerra si concluse in sette mesi, grazie all’uso massiccio di armi chimiche. Così Vittorio Emanuele terzo divenne imperatore il 9 maggio del 1936. Mussolini proclamò, dall’ormai famoso balcone di piazza Venezia, “la riappropriazione dell’impero sui colli fatali di Roma”. Con l’accettazione del titolo casa Savoia legò completamente il suo nome a una delle pagine più buie della storia nazionale italiana. Per centinaia di innocenti barbaramente deportati che potevano finalmente tornare a casa uno non lo fece: il fante del regio esercito italiano Carmine Iorio. Nativo di Altavilla nel Cilento, Carmine Iorio è di famiglia povera come quasi tutti i giovani mandati a morire dai governi italiani succedutisi dopo l’unità d’Italia e con la benedizione dei re di casa Savoia.
La Libia era considerata la “terra promessa“: grano, orzo, ulivi, aranci, mandorle, peschi, fichi, albicocche, meli, peri, meloni, legumi e, soprattutto, immensi giacimenti di zolfo. Anche la speranza di far tornare un po’ di immigrati che avevano scelto le Americhe per costruirvi il futuro. Ma di questo sa poco o nulla Carmine, l’unica cosa che gli brucia è non essere riuscito neppure a salutare la sua Lorenzina, che non vedrà mai più. E rimarrà preso in un paese che non conosce, a far la guerra a persone che non gli hanno fatto nulla di male. Rimarrà anche travolto dagli assurdi regolamenti militari: cappotto chiuso anche se ci sono 50 gradi. E un sergente carogna, tal Rosina, che lo deferisce perché una sera che è di guardia ha la camicia sbottonata. Carmine finisce a ramazzare, senza dormire, il piazzale dell’alzabandiera. Poi la sbronza notturna, la rissa con altri commilitoni e la cella di rigore. Una spallata alla porta e via in fuga senza sapere dove.
Fu così che Carmine passò dall’altra parte. Preso da un gruppo di beduini venne portato al cospetto di Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al–Senussi e di suo fratello Sayed Mohammed er- Ridà ad Ajdabia, i due leader della resistenza antiitaliana. Qui gli viene notificata la condanna a morte tramite fucilazione, condanna che potrà essere ritirata se ucciderà i rivali dei due fratelli Senussi. In cambio otterrà non solo la vita salva ma anche un cavallo e un alloggio e la possibilità di rifarsi una esistenza nuova. Il dubbio prende il povero buttero, ma poi si domanda forse il re Vittorio Emanuele gli aveva chiesto un parere prima di mandare ad ammazzare gente altrettanto sconosciuta che se ne stava a casa loro? E il sergente Rosina non aveva sempre detto che i soldati non dovevano pensare, dovevano solo sparare? I cappellani militari forse non benedicevano i moschetti e le baionette da ficcare nella pancia dei nemici? Nella confraternita dei Senussi Carmine Iorio diverrà Yusuf el_Muslim, imparerà l’arabo, lui che conosceva male l’italiano. Leggerà il Corano e si convertirà, seppur di notte continuerà a pregare san Gennaro e la Madonna del Carmelo. Nessuno lo ha trattato mai così bene, nessuno lo offende e lo prende in giro, anzi ben presto si sposa e ha dei figli.
Con l’ascesa al potere di Mussolini riprende l’ansia imperiale di Roma e di Vittorio Emanuele terzo detto “il re sciaboletta“. Lo scontro si fa durissimo. Davanti alla violenza italiana Carmine fa una scelta di campo, lucida e precisa. Si schiera con la resistenza libica, diventa comandante guerrigliero: “ma non ho mai sparato un colpo contro i miei connazionali, neppure i libici me lo hanno chiesto“. Il 16 novembre del 1928, grazie alla delazione di un arabo collaborazionista degli occupanti italiani, Yusuf el Muslim verrà catturato. Al processo, per segnare l’estraneità dall’esercito italiano, il giudice pretese che domande e risposte fossero fatte in arabo da un interprete. Condannato a morte Carmine alias Yusuf el Muslim incoraggerà i soldati italiani a premere il grilletto dei loro fucili. Prima aveva rifiutato la presenza del prete cattolico e chiesta quella di un mufti perché:” signor colonnello, io oggi me ne vado, ma i miei figli no, loro restano, se muoio da cristiano, saranno i figli di un traditore, se muoio da musulmano