“Ogni record stabilito dai nostri rappresentanti, ogni vittoria in Manifestazioni internazionali, sono la chiara dimostrazione al Mondo intero della forza e dei vantaggi del sistema comunista …!!” Così titolava con tono enfatico il quotidiano sovietico Sovetskij Sport alla vigilia dei giochi olimpici di Helsinki del 1952, prima partecipazione dell’Urss al massimo consesso sportivo, lanciando definitivamente la sfida al primato degli Stati Uniti.
Da questo momento non ci sarà praticamente disciplina ed evento sportivo che non costituirà una vetrina di questo confronto e se tutto il blocco comunista sfrutterà massicciamente gli importanti risultati sportivi, come strumento di legittimazione politica, l’Urss (imitata poi dalla Germania Est) metterà a punto una vera e propria struttura scientifica di gestione della pratica sportiva fin dall’età infantile, per poter costruire campioni che primeggino nella varie specialità.
Ci sono solo due sport in cui sembra non esserci competizione; il calcio, a lungo assente dal panorama degli sport di rilievo negli Stati Uniti e nel quale l’Unione Sovietica, pur non essendo un paese di primo piano, continuerà a produrre giocatori e squadre di buon livello per tutta la sua parabola storica ed il basket, l’unico sport inventato davvero negli Stati Uniti e che in effetti vede un dominio incontrastato della compagine nord-americana nei giochi olimpici fino a tutti gli anni ’60.
Nel caso del basket però le dinamiche sono molto diverse rispetto a quelle del calcio, poiché l’Urss arriva comunque a contendere l’oro ai suoi rivali in tutte le edizioni dei giochi dal 1952 al 1964, ma il divario tra le due nazionali risulta ancora netto.
Durante gli anni’60, i sovietici cominciano a togliersi le prime soddisfazioni, battendo gli statunitensi in una combattutissima finale per il bronzo nei campionati del mondo del ’63, disputati in Brasile (partita vinta per 69 – 67) e conquistando l’oro quattro anni dopo in Uruguay, in un’edizione che vede gli Stati Uniti piazzarsi soltanto quarti.
Va precisato però, che i campionati del mondo, soprattutto fino alla fine degli anni ’70, non riscuotono, presso l’opinione pubblica statunitense, lo stesso interesse che registrano nel mondo europeo, ragione per cui gli americani vi partecipano con squadre rimaneggiate; ma si tratta senz’altro di risultati che incidono nel movimento cestistico sovietico e che naturalmente vengono salutati entusiasticamente in patria. Peraltro, a livello continentale l’Urss detta legge fin dalla sua prima apparizione nei campionati europei nel 1947, inaugurando una cavalcata trionfale che la vedrà aggiudicarsi 14 titoli, l’ultimo dei quali nel 1985.
Ai giochi di Monaco di Baviera del 1972, la nazionale di pallacanestro americana arriva dunque con un incredibile record che la vede imbattuta fin dalla prima olimpiade cestistica del 1936, nonostante il bando ancora vigente da parte del Cio nei confronti del professionismo, che di fatto viene applicato solo nei confronti dei giocatori americani dell’Nba e dell’Nhl (la lega professionistica nord americana dell’hockey su ghiaccio: entrambe all’epoca vedono impegnati ancora esclusivamente atleti di casa) e dei calciatori occidentali (ma in questo caso con il beneplacito storico della Fifa che ha sempre fatto in modo di privilegiare la supremazia dei propri campionati del mondo), mentre in concreto viene bellamente aggirato da tutti gli altri paesi e discipline ed in special modo dagli atleti del blocco comunista, i cui sportivi risultano dilettanti che percepiscono solo dei rimborsi; al contrario, gli americani si vedono costretti ad allestire squadre con i loro migliori giocatori di college, il che per di più vuol dire schierare ad ogni edizione una squadra diversa.
Le olimpiadi del 1972, giungono in un contesto particolare nella storia delle relazioni tra le due potenze: dopo la crisi di Cuba del 1962 – in cui si è sfiorato il conflitto nucleare – ed il succedersi delle varie crisi internazionali – cui hanno fatto da detonatore le proteste del ’68 – entrambi i governi cercano di stemperare i toni e ravvivare il dialogo.
Da parte statunitense, c’è l’onda lunga del conflitto in Vietnam, che dal 1965 li vede coinvolti militarmente contro l’organizzazione filocomunista dei Vietcong, conflitto che dopo sette anni ha ormai ingenerato un diffuso malcontento presso vari strati della popolazione, soprattutto sulla scorta dell’esplosione delle manifestazioni del ’68; ed è sotto la pressione di tali proteste che si giunge, nel 1971, all’annullamento della condanna inflitta a Muhammad Ali, per essersi rifiutato di prestare servizio nell’esercito.
Sul versante sovietico, si avvertono degli scricchiolii sempre più rumorosi all’interno della galassia comunista, in conseguenza della sanguinosa invasione della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968, in risposta alla primavera di Praga ed alle misure riformiste in senso liberale volute dal presidente Alexander Dubček. La decisione di Mosca, che segue di dodici anni l’invasione dell’Ungheria, produce uno strappo importante con la stragrande maggioranza degli alleati, nonché all’interno praticamente di tutti i partiti comunisti occidentali.
Entrambe le potenze avvertono pertanto l’esigenza di un dialogo che dia la possibilità di placare le inquietudini interne ed esterne: nasce in tale quadro, la firma, il 26 maggio 1972, a Mosca del SALT I, l’accordo con cui il Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e il Segretario generale del PCUS Leonid Brežnev, sanciscono il congelamento del numero di missili detenuti nei propri armamenti e di conseguenza un allentamento della pressione militare.
Il fronte della competizione, si sposta così sul versante propagandistico, con lo sbarco sulla luna dell’Apollo 11 nel 1969, che imprime un’accelerazione alla strategia della “corsa allo spazio” ed accrescendo il confronto sul piano del predominio sportivo (come dimostrato poche settimane prima dei giochi anche dal match scacchistico, non a caso rimasto nella storia, tra Bobby Fischer e Boris Spasskij), terreno comunque decisamente preferibile e di più facile raccoglimento del consenso, rispetto all’impegno bellico.
Sulla base di queste premesse, il 9 settembre, si arriva alla finale del torneo olimpico di basket, che ancora una volta vede contrapposte le due nazionali, tra l’altro nella penultima giornata di gare e con le due delegazioni separate da poche medaglie nel computo complessivo.
Le due squadre approdano alla finale senza eccessivi patemi, tranne un match più sofferto contro il Brasile per gli Stati Uniti (vinto per 61–54) e soprattutto per i sovietici contro la sorprendente Cuba in semifinale, sconfitta per soli sei punti (67–61), mentre gli Usa si impongono sull’Italia di Renzo Bariviera e Dino Meneghin, sconfitti da Cuba nella finale per il bronzo.
La nazionale statunitense presente a Monaco è la più giovane della storia e non ha un vero leader: lo sarebbe stato probabilmente Bill Walton, centro e futura stella dei Milwaukee Bucks nell’Nba, che però rifiuta la convocazione per problemi ambientali lamentati durante i campionati del mondo di due anni prima. Peraltro, la presenza di Walton è stata caldeggiata a lungo anche dal governo considerandola, dato il momento, un segnale di unità nazionale, a causa delle sue posizioni contro la guerra in Vietnam e per i suoi atteggiamenti hippy. Nonostante tutto però, i favoriti sono ancora loro, per la tradizione che parla a loro favore e per i giocatori di talento che comunque possono annoverare, tra i quali Doug Collins, futuro play dei 76ers o Tommy Burleson, centro di 2mt. 18 che avrà una lunga carriera in Nba, nei Supersonics, Kings ed Hawks.
Al contrario la squadra sovietica è composta da veterani, che giocano insieme da quasi dieci anni, quali Modestas Paulauskas, Sergej Belov o Gennadij Vol’nov alla sua quarta apparizione olimpica ed è in assoluto una delle loro migliori formazioni di sempre. Una figura fondamentale di quella nazionale è anche il commissario tecnico, Vladimir Kondrashin, un rivoluzionario del basket che è riuscito a sviluppare un gioco dinamico e veloce, laddove dall’altra parte c’è Henry Iba, che ha in effetti già guidato gli Stati Uniti alla vittoria nelle due edizioni precedenti, ma che è ormai considerato un tecnico dalla visione di gioco obsoleta, eccessivamente legata alla ricerca del passaggio in più e troppo incentrata sulla difesa , in un gioco ormai sempre più atletico e rapido.
La finale scorre sul filo dell’equilibrio, con i sovietici che chiudono il primo tempo in vantaggio per 26–21. Stessa falsariga per gran parte del secondo tempo, ma a dieci minuti dalla fine, i sovietici aumentano il loro vantaggio portandosi a +10. La situazione sembra compromessa per gli americani anche per l’espulsione dell’ala Dwight Jones e dall’infortunio occorso al centro Jim Brewer, due giocatori che avranno un percorso professionistico parallelo, che li vedrà, dopo circa dieci anni di Nba, concludere la loro carriera in Italia, rispettivamente a Trieste e Cantù.
A questo punto scatta la reazione travolgente degli americani, che decidono di ignorare le indicazioni di coach Iba e di applicare il loro gioco e, guidati da uno strepitoso Kevin Joyce, riescono a ridurre lo svantaggio ad un solo punto quando mancano trentotto secondi al termine dell’incontro.
A sette secondi dalla fine, Doug Collins ruba a metà campo un passaggio corto di Alexander Belov e viene colpito duramente da Sakandelidze mentre avanza verso il canestro; gli vengono accreditati due tiri liberi con tre secondi ancora da giocare e cronometro fermo: il primo va a segno e si arriva sul 49 pari, ma mentre Collins comincia ad eseguire il movimento per il secondo tiro libero, dal tavolo degli ufficiali di gara suona la sirena, in conseguenza di una richiesta di time-out da parte della panchina sovietica. L’arbitro principale, il brasiliano Renato Righetto, non fa in tempo a fermare il gioco, per cui Collins nel frattempo mette a segno il suo secondo tiro libero, ribaltando il risultato portando gli Stati Uniti in vantaggio 50–49.
Ciò che succede da questo momento in poi, sarà una vera bolgia, che renderà gli ultimi tre secondi di quest’incontro, il frangente più controverso della storia del basket ed uno degli avvenimenti più polemici nell’intera storia dei giochi e dello sport tutto.
Il gioco riprende con la rimessa russa dal fondo, ma viene fermato dagli arbitri mentre Sergej Belov è in possesso di palla a metà campo, poiché l’assistente di Kondrashin, Sergej Bashkin, esce fuori dalla zona riservata alle panchine, rivolgendosi agli arbitri per lamentarsi della mancata concessione del time out precedente: nonostante l’intralcio dovuto all’atteggiamento di Bashkin e la discussione che ne deriva, inspiegabilmente Righetto non fischia né un fallo tecnico contro il tecnico russo, né fa riprendere l’azione dal punto dell’interruzione, ma ordina di ripetere la rimessa, con le vibranti proteste degli americani, che non comprendono la logica della decisione.
È a questo punto che la situazione si ingarbuglia ancora di più, per l’entrata in scena di un altro protagonista del tutto inatteso e cioè Renato William Jones, segretario britannico della federazione internazionale. Jones, è non solo uno dei fondatori della federazione internazionale, ma ne è in qualche modo il padre/padrone, segretario fin dalla sua fondazione nel 1932 ed artefice dell’introduzione del basket nei giochi olimpici. Il primo dei due nomi di battesimo è dovuto al fatto di essere nato a Roma ed Aldo Giordani, grande giornalista, figura fondamentale per la divulgazione cestistica in Italia, racconta che in occasione della sua prima intervista con Jones, alla classica domanda in inglese “how are you?” si fosse sentito rispondere con un secco: “ma vaffa’…” rimanendo impietrito.
Jones non avrebbe titolo per intervenire nelle questioni di campo, ma entra nella dinamica della vicenda per far notare (non a torto) che se l’azione dev’essere ripetuta e non è stato concesso alcun time-out (e contrariamente a ciò che molti pensano sugli spalti, data la prolungata interruzione, in effetti non è stato concesso) allora anche il cronometro va riportato sui tre secondi che mancavano all’inizio dell’azione, mentre incomprensibilmente Righetto, ormai in confusione, dà l’ordine di far ripartire il cronometro da 1 secondo, di fatto convalidando lo svolgimento di un’azione che lui stesso ha interrotto.
Un attimo prima che si rigiochi la rimessa dal fondo, accade un altro episodio che vìola le regole; pur non essendo accordato alcun time out, gli arbitri consentono ai sovietici di effettuare una sostituzione che si rivelerà decisiva, con l’ingresso di Ivan Jadėška, il quale si reca oltre la linea di fondo campo per effettuare la rimessa.
L’intento di Kondrashin, è utilizzare la lunga gittata del lancio di Jadėška, per cercare di raggiungere subito sotto canestro Alexander Belov, dotato di un’ottima elevazione; ma il sovietico, che ha la visuale coperta da Mc Millan, temendo che il passaggio si perda nel nulla, preferisce effettuare un rinvio corto, il che determina lo scadere del tempo, con il punteggio che quindi si attesta sul 50 – 49 per gli americani, che scoppiano naturalmente in tripudio incontenibile; partita finita, dunque? Neanche per sogno! Nella foga del momento, gli arbitri hanno commesso un ulteriore errore: non si sono accorti che in realtà il cronometrista al tavolo dei giudici, non ha avuto il tempo materiale di riportare il cronometro sui 3 secondi, come precedentemente stabilito, per cui l’azione è stata giocata con il tabellone settato ancora su 1 solo secondo rimanente. Nuovo intervento degli arbitri, dei giudici, di Jones e di dirigenti vari delle due squadre e della federazione: l’azione va rigiocata, con il cronometro che dovrà essere riportato su 3 secondi.
Gli statunitensi protestano furiosamente, ma gli arbitri sono irremovibili: per la terza volta, la palla torna sulla riga di fondocampo, e qui si assiste ad un’altra interpretazione arbitrale misteriosa; il secondo arbitro, il bulgaro Artenik Arabadjian, fa cenno questa volta a Mc Millan di spostarsi dalla posizione di ostacolo frontale rispetto a Jadėška (direttiva non contemplata da alcuna norma regolamentare), il quale a questo punto ha lo spettro visivo del tutto libero per servire direttamente Alexander Belov che (forse aiutandosi anche con un gomito per liberarsi di un avversario in marcatura) scivola a canestro per la segnatura del sorpasso (51 – 50) che mette fine alla contesa, questa volta definitivamente. L’immagine dello stesso Belov che corre a braccia alzate verso la panchina, rimane una delle più iconiche dell’intera storia dello sport.
All’euforia irrefrenabile dei sovietici, si contrappone la reazione veemente degli statunitensi, che accerchiano letteralmente gli arbitri e la giuria e vengono trattenuti a stento dai proprio dirigenti. Quella notte stessa, il comitato olimpico statunitense presenta una dettagliata protesta, pare in qualche indirettamente avallata (ma non c’è alcuna conferma in tal senso) dal capo arbitro Righetto, che si sarebbe rifiutato di firmare il referto ufficiale di gara, dissentendo sull’intervento di Jones.
Bisognerà attendere l’alba per il riconoscimento ufficiale della vittoria sovietica, dopo la riunione di una giuria composta da dirigenti Fiba (la federazione internazionale di basket) che con una votazione controversa, decidono per 3 voti a 2 di confermare il verdetto del campo.
Si è molto discusso sul fatto che la distribuzione finale dei voti, corrisponda esattamente alla ripartizione geo-politica dei giudici, con tre di loro provenienti da paesi del Patto di Varsavia e due dall’area Nato: ma senza prove certe e non conoscendo la suddivisione dei voti, si rischia solo di fare dietrologia, anche perché si parla comunque di dirigenti federali, che non possono non essere stati condizionati, direttamente o indirettamente, dalle direttive del segretario Jones.
Lo stesso intervento di quest’ultimo peraltro, non è esente da critiche di carattere politico, in quanto secondo molti osservatori, l’ingerenza nelle decisioni arbitrali sarebbe stata motivata esclusivamente dall’intento di favorire la vittoria sovietica, all’interno del suo progetto di internazionalizzazione de gioco, causa che avrebbe ricavato un grande servigio da una sconfitta che ponesse fine al monopolio olimpico degli Stati Uniti.
Chiaramente nessuno può sapere quale fosse la motivazione reale che abbia indotto Jones ad arrogarsi un’azione per la quale non aveva potere, ma va detto che se l’intento fosse stato realmente quello di estendere i confini del basket – sport peraltro già in forte crescita all’epoca – possiamo ben dire a posteriori che ci sia perfettamente riuscito, non solo per la diffusione crescente della disciplina, ma anche per l’onda lunga esercitata da quell’incontro; è a partire da quel momento infatti, che gli europei hanno cominciato a rapportarsi gradualmente alla pari con quelli che allora erano considerati i “mostri” d’oltreoceano e gli statunitensi a comprendere per reazione, l’importanza di portare l’Nba nel basket internazionale, spinta anche dall’interesse della lega stessa di attrarre sempre più il mondo ed i giocatori europei.
Proprio l’obiettivo della federazione internazionale di basket e dell’Nba, fu alla base della successiva abolizione della distinzione (ormai del tutto anacronistica) fra professionismo e dilettantismo a partire dal 1992, complice anche la nuova sconfitta subita dagli Usa per mano dell’Urss nel 1988.
Tornando a quella serata di Monaco, gli statunitensi non salirono sul podio per protesta e non ritirarono mai neanche in seguito la medaglia, nonostante i reiterati interventi del Cio nel corso del tempo: addirittura, dopo essersi ritrovati nel 2012, tutti i componenti della squadra hanno deciso all’unanimità di inserire nei rispettivi testamenti individuali, una clausola in base alla quale neppure gli eredi saranno mai titolati a ritirare le medaglie, che a tutt’oggi sono custodite nel caveau di una banca di Losanna.
I sovietici invece, furono salutati al loro rientro in patria come veri eroi, osannati ancora negli anni a venire, accompagnati da quell’immagine eterea della corsa irrefrenabile di Alexander Belov: corsa che però si interruppe prematuramente appena sei anni dopo i giochi, nel 1978, a causa di un sarcoma cardiaco.