“E’ il risultato più importante della nostra storia. È l’apice della carriera di un giocatore, per quanto io sia ancora giovane”.
Sono le parole di Vijay Amritraj, il più grande giocatore della storia del tennis indiano, all’indomani della vittoria della nazionale nella semifinale di coppa Davis sull’Unione Sovietica il 22 settembre 1974.
Nell’euforia di fine match, il capitano Ramanathan Krishnan dice ad un giornalista: “speriamo che nell’altra semifinale vinca l’Italia, perché andare a giocare in Sudafrica, per noi sarebbe decisamente complicato”; ma le speranze del tecnico indiano naufragano, perché a Johannesburg il Sudafrica batte l’Italia per 4-1, per cui la finale vedrà di fronte Sudafrica ed India in un incontro da giocare nel mesi di dicembre in Sudafrica.
La finale dell’edizione 1974 della più antica manifestazione a squadre dello sport mondiale, è un evento storico; dal 1936 infatti, l’albo d’oro della Davis ha sempre visto alternarsi vittorie di Stati Uniti ed Australia, complice senza dubbio anche la formula di matrice tipicamente inglese del Challenge round (la stessa che vige tutt’ora nella Coppa America di vela, per intenderci) in vigore fino al 1972, per la quale la nazionale campione in carica veniva direttamente ammessa alla finale dell’edizione seguente, ricevendo in casa la squadra sfidante, con il doppio vantaggio di un minor dispendio di energie e del fattore campo, con relativa scelta della superficie su cui disputare l’incontro.
Peraltro, prima di questo duopolio ininterrotto, le uniche altre formazioni in grado di aggiudicarsi la prestigiosa insalatiera d’argento sono state solo Francia e Gran Bretagna, per cui qualunque esito scaturirà della finale di Johannesburg, ci sarà una nuova squadra che potrà iscrivere il proprio nome nell’elenco dei vincitori della prestigiosa manifestazione.
Fino al cambiamento della formula varato nel 1981, la Davis non prevederà l’attuale suddivisione delle squadre partecipanti per livello di merito, bensì un allineamento di tutte le formazioni in un’unica fascia, ripartite per aree geografiche: le vincitrici delle varie divisioni di zona, si qualificano alla fase conclusiva, imperniata su semifinali e finale.
Il Sudafrica giunge in finale dopo aver superato il Cile di Jaime Fillol e Patricio Cornejo (gli stessi che due anni dopo contenderanno la finale all’Italia nella vittoriosa trasferta di Santiago) nella finale del proprio raggruppamento geografico e nella finale interzona americana la sorprendente Colombia, che pur schierando due giocatori tutto sommato modesti, come Jairo Velasco ed Ivan Molina, estromette inaspettatamente gli Stati Uniti di Harold Solomon (futuro avversario di Panatta nella finale del Roland Garros ’76 vinta dall’azzurro), Charlie Pasarell ed Eric Van Dillen.
In semifinale i sudafricani si trovano di fronte la giovane, ma già talentuosa Italia di Panatta, Zugarelli e Bertolucci: ma sul campo in cemento in altura dell’Ellis Park di Johannesburg, gli azzurri (che pure si sono trasferiti in Sudafrica per un mese intero per preparare il confronto al meglio, una durata probabilmente estenuante) escono come abbiamo visto seccamente battuti dalla compagine di casa, composta da Bob Hewitt (padre del futuro n.1 del mondo Lleyton) e Ray Moore in singolare e da una delle coppie più vittoriose di sempre, quella composta dallo stesso Bob Hewitt e Frew Mc Millan, rinviando di due anni l’appuntamento con l’agognato primo trionfo italiano in Davis.
L’India a sua volta compie un’impresa destinata a rimanere nella sua storia tennistica, battendo nella finale della propria zona geografica l’Australia sull’erba di Calcutta (quindi sulla superficie prediletta degli Aussies) per 3-2 al termine di un confronto di grande intensità: in tutto, tra i 5 match disputati, vengono giocati 327 games, record assoluto nella storia della Davis.
L’incontro che più di tutti riassume l’incredibile equilibrio delle tre giornate di gara è il doppio, in cui in fratelli Amritraj, Anand a Vijay, coppia tra le più forti all’epoca nonostante qualche dissapore interno, battono John Alexander e Colin Dibley al termine di una maratona durata oltre 5 ore, con il punteggio di 17-15, 6-8, 6-3, 16-18, 6-4. Il confronto passa alla storia anche per l’esordio da titolare, nella formazione indiana, del primo e finora unico giocatore di etnia Sikh ad aver calcato un campo da tennis, Jasjit Singh, che nel march d’esordio contro il numero 2 ospite Bob Giltinian, si impone a sua volta con un mirabolante 11-9, 9-11, 12-10, 8-6.
Come già anticipato, in semifinale gli indiani affrontano vittoriosamente l’Unione Sovietica a trazione georgiana di Alex Metreveli e Teimuriaz Kakulia, i maggiori talenti della storia tennistica sovietica, prima dell’emergere di Andrej Česnokov a metà anni ’80.
Fughiamo subito i dubbi di chi possa pensare ad un errore di battitura: il Sudafrica si trova effettivamente scaraventato a disputare la prima fase nella zona americana, in conseguenza della fresca riammissione alla Davis, dopo un’esclusione di quattro anni per la sua politica di apartheid. Il principio che ispira tale decisione da parte della federazione internazionale, è evitare possibili incroci con altre nazionali africane, il che avrebbe condotto sistematicamente ad una serie infinita di forfaits, falsanti il regolare andamento della competizione.
Ciononostante, già dai turni di qualificazione, la sua presenza in tabellone risulta un problema, causando il ritiro dell’Argentina di Guillermo Vilas nella semifinale di zona e conducendo ad una controversia con la stessa Italia per la disputa della semifinale: gli azzurri rifiutano inizialmente di recarsi in Sudafrica e propongono l’inversione del campo, ipotesi decisamente rifiutata dai sudafricani, anche per una ragione tecnica, dato che ciò avrebbe significato giocare sui campi in terra battura del Foro Italico, i più ostici per il loro tennis offensivo.
Del resto, la stessa squadra sudafricana non è esente da malesseri interni per la politica di Pretoria, anche perché composta esclusivamente da bianchi anglofoni, meno oltranzisti sulla politica segregazionista rispetto agli afrikaners, i discendenti dei colonizzatori olandesi, con i quali sono peraltro in contrasto, in seguito all’esclusione dal Commonwealth, proprio a causa dei problemi razziali.
Il n.1 della forte compagine sudafricana è in realtà all’epoca Cliff Drysdale, il quale però, all’indomani della vittoria nella finale della propria zona di qualificazione contro il Cile, rinuncia a rappresentare il suo paese, rigettando anche la cittadinanza, stanco di essere trattato come ospite sgradito in ogni luogo del mondo in cui si rechi; alla fine però, come abbiamo visto, il resto della squadra (a detta di molti la più competitiva dell’intera storia tennistica del paese) riesce ugualmente ad approdare in finale.
Fin dai primi giorni immediatamente successivi alla conclusione delle semifinali, la presenza indiana in finale, come già anticipato dalle parole del capitano Krishnan, appare molto improbabile. L’opposizione degli indiani al regime sudafricano, non è dettata solo da solidarietà, ma anche dal coinvolgimento nelle discriminazioni, della folta comunità indiana che già dall’800 viene trapiantata come forza lavoro in Sudafrica dagli inglesi, concentrata in particolare nel KwalaZulu – Natal e nella sua capitale Durban: è qui che il giovane avvocato Gandhi organizza la sua prima manifestazione di lotta nonviolenta, in opposizione ad una legge che prescrive l’obbligo di schedatura dei cittadini indiani. Dalla metà degli anni ’40, il governo sudafricano approva delle leggi che limitano le libertà ed i diritti degli immigrati di origine asiatica: non a caso l’India è tra i paesi che per primi chiedono l’estromissione del Sudafrica dal Commonwealth ed in seguito anche dal Cio.
Per essere riammessa alla Davis, la federazione sudafricana adotta alcuni escamotages, tra cui quello di concedere nel 1973, per la prima volta, il visto ad Arthur Ashe, simbolo degli afro-americani nel tennis, per gli Open del Sudafrica, che si disputano all’Ellis Park, uno dei luoghi dell’apartheid, stadio della nazionale di rugby. Ashe, pretende che durante le sue partite non ci siano settori distinti sugli spalti e viene accontentato: tanto basta, all’accondiscendete federazione internazionale, per riabilitare i sudafricani.
Si viene ad aprire così un vibrante dibattito sulla possibile partecipazione dell’India alla finale, che spacca il mondo dello sport, diviso tra i sostenitori del boicottaggio per isolare il paese africano e chi, come lo stesso Ashe, vede nel confronto sportivo un’occasione importante di sensibilizzazione; dopo svariati tentativi di negoziazione tuttavia, su sollecitazione diretta del primo ministro Indira Ghandhi, la federazione indiana decide di disertare la finale: di conseguenza, la federazione internazionale assegna la vittoria a tavolino ai sudafricani.
“Vincere in questo modo ci ha lasciato un grande rammarico”, ricorda il n.2 sudafricano Ray Moore in un’intervista al “Times”, aggiungendo: ““Alla fine, il governo indiano aveva ragione”. “Se altri Paesi avessero boicottato il Sudafrica, forse l’apartheid sarebbe stato debellato prima”, idea peraltro non condivisa da tutta la squadra.
“E’ facile dire teniamo lo sport fuori dalla politica”, ha affermato Vijay Amritraj in un discorso tenuto il 6 maggio 1988 davanti al comitato speciale contro l’apartheid del’ONU, aggiungendo: “In certi casi è praticamente impossibile. Ci sono questioni che dobbiamo appoggiare o alle quali ci dobbiamo opporre, perché siamo esseri umani prima che atleti. Da sportivo, ho provato delusione, anche perché non sapevamo se avremmo mai avuto l’occasione di disputare un’altra finale di Davis, ma dentro sentivo che era meraviglioso aver in qualche modo supportato la lotta di un popolo che voleva semplicemente vivere come tutti gli altri”.
Il Sudafrica continuerà ad essere ammessa alla coppa Davis fino al 1978, ma dopo che la stagione 1977, vede 15 nazioni ritirarsi e perdere pur di non giocare contro una nazionale rappresentante di un regime razzista, la squadra sarà nuovamente esclusa dalla Davis fino al 1992, anno di abolizione del regime di apartheid.
La sorte regala all’India un’inattesa seconda opportunità: a distanza di ben 13 anni, nel 1987 a coronamento di una carriera ineguagliabile conclusasi solo nel 1993, Vijay Amritraj e la nazionale indiana, dopo una nuova, incredibile vittoria sull’ l’Australia questa volta guidata da Pat Cash (fresco vincitore di Wimbledon) si ritrova nuovamente in finale: ma contro la stratosferica Svezia degli anni ’80, di Mats Wilander, Joakym Nystrom e Anders Jarryd, sulla terra battuta terra svedese, non c’è partita.
Comunque la si pensi sull’opportunità di giocare quella finale, non si possono che condividere le parole con cui lo stesso Amritraj (personalità di straordinario spessore, dal 2001 commissario Onu per la pace ed impegnato con una sua fondazione nella lotta all’AIDS) conclude il suo intervento presso il comitato ONU: “Sento che ogni persona, importante o no, qualsiasi professione svolga abbia una certa responsabilità verso i suoi simili. Perciò sta a ognuno di noi dare il suo contributo verso un mondo migliore. Un mondo di uguaglianza, di dignità, di libertà”.
Per la cronaca, la finale di quella stagione era comunque destinata a non disputarsi: anni dopo infatti, si apprese che anche l’Unione Sovietica, pur con il peso propagandistico attribuito dal regime alle vittorie sportive, che tra l’altro in questo caso sarebbe stato ampliato dalla connotazione elitaria del tennis dell’epoca, avrebbe comunque rinunciato a sua volta a recarsi in Sudafrica.