“Il sabato nei decenni 70 e 80, mi hanno sempre raccontato i miei amici triestini, la nostra città diventava una grande città slava. Dalle primissime ore del mattino arrivavano nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia decine e decine di pullman provenienti dalle più svariate zone della Jugoslavia“. La “Jugo“, come ancora la chiamano in parecchi fra gli abitanti delle zone di confine del Carso. E non solo loro. Segno che la storia del “paese degli slavi del sud“ è difficile da rimuove. Una storia che si alimenta di miti e di riti da ambedue le parti che occupano le terre di confine.
Confine o frontiera? Limes o limen? Lo Zingarelli ci dice che: “Nel mondo classico la differenza tra i due termini era infatti assai marcata. Il confine si sostanziava in una linea netta e tendenzialmente statica, atta ad operare una separazione di spazi tra realtà contigue e appartenenti alla stessa cultura o a culture differenti ma che si riconoscevano a vicenda. Il confine delimitava quindi le dimensioni dei terreni, le mura di una città, l’estensione di una provincia, così come le aree geografiche controllate da entità politiche limitrofe. Il termine confine insomma apparteneva alla dimensione dello spazio conosciuto, del mondo noto. La frontiera, invece, rappresentava la soglia di demarcazione che separava il noto dall’ignoto, l’ordine dal disordine, la civiltà dalla barbarie. Non si trattava di una linea statica e ben definita ma di una zona, un’area geografica dai bordi esterni suscettibili alla mutazione; una sorta di fascia territoriale elastica, affacciata su territori sconosciuti.“
Noi usiamo con una certa leggerezza, come fossero due sinonimi, i termini frontiera e confine. Per il confine nord est d‘Italia, quello che circonda la città di Trieste possiamo però utilizzare una terza definizione: interrelazione. Fluidi, diremmo oggi. Senza ricostruire la storia di millenni, che vede una fluidità totale delle frontiere, per rimanere a ridosso del capoluogo friulano contiamo ben 20 valichi di frontiera. Molti dei quali frutto della divisione dopo la seconda guerra mondiale e di quel periodo di instabilità che si concluse con il Memorandum di Londra, nel 1954, e il ritorno di Trieste all‘Italia. La vera svolta avvenne però con il Trattato di Osimo, firmato nel novembre del 1975, con cui si è definito il confine fra la Repubblica Italiana e la Repubblica Federativa di Jugoslavia.
Dopo questo excursus possiamo tornare ai sabati che viveva Trieste almeno nel periodo 1970/80. Perché proprio il sabato? Perché il sabato era giorno di mercato per il capoluogo giuliano. Molti arrivavano in auto dai posti più vicini: Capodistria, Pola, Fiume. Tantissimi sui pullman che magari avevano viaggiato per una notte intera da Skopije, da Belgrado, da Sarajevo. I cittadini jugoslavi hanno valigie, borse, scatoloni vuoti da riempire con ogni tipo di mercanzia: alimentari, vestiti, materiale elettrico, autoricambi, giocattoli. Affollano non solo le bancarelle del mercato di piazza Ponterosso ma anche i negozi del centro. Affari buoni sia per chi compra che per chi vende. Tanto che dal resto della regione, Monfalcone, Udine, la stessa Gorizia sono molti i commercianti italiani a raggiungere Trieste certi di ottime vendite.
“Ricordo, continua l‘amico triestino, le file dei pullman “jugo“ sulla riva. Da Muggia in qua non c‘era posto per parcheggiare. L‘altro valico preso d‘assalto, specie dai mezzi che arrivavano dall‘interno della Jugoslavia, era Fernetti. Gli slavi lasciavano auto e corriere dove capitava e scendevano in città con i mezzi di trasporto pubblici. Noi andavamo a mangiare sulla riva perché qualcuno di loro improvvisava baracchini dove cuocevano essenzialmente ćevapčići ma anche shopska salad e zuppe.“
I jeans erano venduti a pacchi, il caffè smerciato a 100 chili alla volta, gioielli e vestiti da cerimonia erano prenotati mesi prima. Tutto questo ha dato a Trieste, in quel periodo, una ricchezza nascosta e sottovalutata. Era, allora, un confine che si ritrovava in città, nelle tante ginserie di Borgo Terasiano e nei bar sia centrali che periferici ove il sabato si beveva solo la Pelinkovac, l‘amaro popolarissimo fra gli jugoslavi. Bicchiere dopo bicchiere, sui banconi di mescita si servivano fiumi di questo liquore.
Ma nel resto della settimana il flusso era all‘inverso: dalle zone di confine, gli italiani, andavano in Jugoslavia, in Istria ovviamente, a fare shopping anche loro. Benzina, sigarette, liquori, prodotti della terra. Un po‘ di contrabbando, ma domestico. Un pacchetto di sigarette o una bottiglia in più del concesso. “Qualcosa da dichiarare?“, la frase a turno dei finanzieri italiani o jugoslavi era più una formalità burocratica che una vera ispezione doganale.
Il confine naturale, nel Carso, non esiste. I ceppi bianchi che delimitano una nazione dall‘altra sono sparsi nel Carso come mandorle su una torta. Esistono vari confini legati ai momenti storici, poi superati dalla voglia della gente di stare comunque assieme confusi come sono da secoli di mescolanza, perfino nelle lingue, nei costumi, nella cucina. La frontiera, quella vera, sancita dai trattati internazionali, fra il sessanta e il novanta del secolo scorso poco alla volta sembrava ridurre il suo potere. “La frontiera più aperta d‘Europa“ è stata definita nel tempo, anche perché Trieste faceva parte della famosa frase pronunciata da Winston Churchill: «Da Stettino sul Baltico a Trieste nell’Adriatico, una cortina di ferro è scesa attraverso tutto il continente».
Ad alimentare il mito di frontiera più aperta di Europa la famosa “prepusnica”, “lasciapassare” in italiano. Il permesso per i residenti delle zone confinarie (in pratica tutta l‘area della ex zona B) di passare per valichi riservati e avere facilitazioni negli ingressi e nelle uscite. Si aggiungeva poi il riconoscimento, da parte del governo di Belgrado, della sola carta d‘identità italiana per espatriare, mentre il governo di Roma chiedeva ancora il passaporto. Tanti turisti italiani sceglievano di passare per l‘Austria con la sola carta d‘identità per raggiungere la Jugoslavia. Al rientro, convinti che non gli sarebbe successo nulla, transitavano direttamente dalla Jugoslavia all‘Italia. Morale molte denunce per espatrio clandestino, però, risoltesi al massimo con una ammenda amministrativa.
Cosa è rimasto ora dopo che l‘ingresso della Slovenia nell‘Ue ha eliminato formalmente i passaggi di frontiera? Intanto i blocchi volanti che fanno le due polizie di frontiera in chiave anti immigrati. I più anziano ricordano invece quando fra Gorizia e Nova Goriza esisteva un muretto alto un metro con una rete sopra di mezzo metro. Una divisione che veniva aggirata tranquillamente. E gli anziani che si conoscevano a volte anche prima della divisione avvicinavano un tavolino al muretto e giocavano a carte passandosele attraverso le maglie della rete.
Rimangono anche le immancabili scritte: Trieste è nostra – Trst je naš. Una dichiarazione di appartenenza contrapposta che dimostra la fragilità stessa delle reciproche ed esclusive appartenenze.