Senza la storia del Folkstudio — che nasce nel 1960 a Trastevere nel laboratorio dell’artista figurativo Harold Bradley — non ci sarebbe la storia della nostra canzone d’autore, o comunque sarebbe una storia molto diversa. Senza quel piccolo locale, che qualche anno dopo passerà dal fondatore nelle mani di Giancarlo Cesaroni, non sarebbe nata quella Scuola Romana prodotta dalla collisione del folk italiano con i suoni e lo spirito che arrivavano dal mondo anglosassone.
Crebbero in quel vivaio artisti come Giovanna Marini, Ernesto Bassignano, Edoardo De Angelis, Luigi Grechi, e poi suo fratello Francesco De Gregori, e poi Venditti, Locasciulli, Rino Gaetano, Giovanna Marinuzzi, Stefano Rosso, Grazia Di Michele, Sergio Caputo e mille altri, fino agli ultimi travagliati anni (Andrea Tarquini calcò giovanissimo, come chitarrista di Stefano Rosso, il palco dell’ultima sede).
Ma, ancora, senza alcuni personaggi chiave che fecero da ponte fra Roma e quel modo di scrivere e di suonare che veniva dagli Stati Uniti, la storia del Folkstudio non sarebbe stata così feconda.
Mario Fales, arrivato da Baltimora, era vicino a quella cultura più di quanto non lo fossero gli aspiranti chitarristi e folk singer del locale. Questo gli permetteva, ad esempio, di comprendere le canzoni di Dylan e Cohen e di tradurle per gli altri che intorno a lui provavano a entrare in quel suono. Ci provavano cercando di riprodurre quello che ascoltavano nei dischi sulle loro chitarre classiche, al massimo — mi racconta un testimone — straziando quei poveri strumenti con mute di corde metalliche. Invece Mario Fales aveva una chitarra vera, che lo rendeva oggetto di ammirazione e invidia da parte dagli altri. Fu inevitabile che diventasse per molti una specie di fratello maggiore.
Mario Fales è morto il 15 aprile scorso. Nella musica si erano perse le sue tracce da parecchi anni, insegnava all’università di Udine e il centro dei suoi interessi erano gli Assiri e l’antico Oriente.
I suoi amici del Folkstudio e alcuni di quelli dell’università si sono ritrovati venerdì 24 maggio all’Antica Stamperia Rubattino, nel quartiere di Testaccio, a pochi passi dalla Scuola Popolare di Musica di cui fu docente.
Hanno tessuto la rete Roswitha Del Fabbro, archeologa e allieva di Fales, organizzatrice infaticabile, attivissima dietro le quinte, e Ludovica Fales, figlia di Mario, padrona di casa deliziosa che durante tutta la serata si è goduta l’enorme affetto che tutti i partecipanti hanno riversato sulla figura del papà, su di lei, sulla mamma in prima fila. Per cominciare ha annunciato una bella notizia per chi ricorda la musica di suo padre e per chi vorrebbe conoscerla oggi. Se finora le poche testimonianze sonore del lavoro di Mario Fales, registrate al Folkstudio, erano reperibili sul sito dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (l’ex Discoteca di Stato) e su quello di Stefano Tonelli (che di Fales fu allievo e che divise con lui il palco del locale in più occasioni), ora su Soundcloud è disponibile il suo album postumo, una playlist di diciannove tracce riportate alla luce e adeguatamente ripulite (lo trovate anche in coda a questo articolo).
Il primo ricordo della serata è stato quello di chi l’ha conosciuto nella sua attività di docente e ha trovato un uomo geniale, che si faceva guidare dagli incontri e dalle relazioni più che dalle regole ingessate dell’accademia. Un uomo che quelle regole sapeva abitarle con quell’equilibrio fra rigore e ironia che è possibile se hai un’intelligenza molto brillante. O se sei un artista. O tutt’e due.
Subito dopo i partecipanti hanno assistito a un breve video in cui Mario Fales ricorda la sua collaborazione con Tito Schipa Jr.: era suo il libretto di Then An Alley, la prima opera teatrale di Schipa costituita da diciotto canzoni di Dylan assemblate in forma di melodramma, e della successiva Orfeo 9 Fales fu uno degli interpreti (e una delle chitarre).
Entrambi personalità artistiche notevoli, ma i due erano probabilmente troppo diversi: nel video Fales racconta il momento della separazione delle loro strade, inevitabile al di là della stima reciproca.
Quindi sul palco è cominciata la parte live della serata. Edoardo De Angelis (nella foto in alto con Giovanni Pelosi) si è assunto il ruolo non facile di cucire gli interventi e dare una scansione alle emozioni della serata, tante e potenti. Il primo ad essere introdotto da De Angelis (gli artisti si sono avvicendati sul palco in un democratico e neutrale ordine alfabetico) è stato Ernesto Bassignano, autodichiaratosi “disertore di chitarra”: un impiccio della mano sinistra gli impediva di imbracciare lo strumento, e così sulle basi registrate ha cantato “È la guerra” e “Folkstudio dove sei” (con la voce di Harold Bradley che lo introduce come se fosse sul palchetto di tanti anni prima).
Sono seguiti i ricordi di Andrea Carpi — le accordature, la composizione “Gange”, il fatto che Mario Fales insieme a Francis Kuipers fosse l’unico al Folkstudio ad avere una vera Martin — e di Luciano Ceri — che di Carpi fu collaboratore nella rivista Chitarre e che negli anni ’70 era stato chitarrista e cantante del Grosso Autunno, gruppo che visse una breve ma proficua stagione e la cui storia incrocia quella di Carpi e del Folkstudio.
Poi è stato il turno di Luigi Cinque, un musicista per molti aspetti distante dagli altri (il suo set ha visto un brano per pianoforte, sax soprano ed elettronica), ma che pure ha ricordato Mario Fales come “un maestro”. E quando Edoardo De Angelis dismette per un attimo i panni del presentatore e porta sul palco la sua musica, lo fa con “La notte romana” (ricordando l’amicizia con Fales che si è interrotta senza fratture, solo perché a un certo punto la vita ti porta altrove) e “Il lupo non verrà”, che è entrata nella colonna sonora di Lala, il film di Ludovica Fales.
Mimmo Locasciulli, fra tutti quello con l’anima da mattatore, racconta dei suoi esordi al Folkstudio col nome di Mimmo Ferri (perché era ufficialmente studente di medicina a Perugia, in arretrato con gli esami, e suo padre leggeva i calendari degli spettacoli sui giornali…). Canta “Quello che ci resta” e “Un po’ di tempo ancora”. Alberto Mieli, chitarrista e cantautore con uno swing interessante (per contiguità verrebbe da pensare a una specie di Sergio Caputo in fingerpicking), che fu allievo di Mario Fales, regala “Monteverde blues” e “Maggie” e “Sulla Luna”, per lasciare il microfono a Giovanni Pelosi: un chitarrista storico, un maestro, che offre il suo arrangiamento di “Il pescatore” e poi “Ecco perché sei qui”, la versione strumentale di un brano che sul prossimo album avrà un testo di De Angelis.
Stefano Tavernese si presenta subito nella veste che gli è da sempre più congeniale e canta “Nobody knows you When You’re Down and Out”. Meno nota è l’attività di autore, ma il pezzo successivo è una sua canzone in italiano con un accompagnamento bluesy molto interessante. Poi arriva Stefano Tonelli, che citavo poco più su come custode del raro materiale audio che circolava del suo maestro. Tonelli è un esploratore della chitarra a 360 gradi, suona un arrangiamento da Eddie Lang e poi la sua “Sardinian Holiday” ispirata a Luca Balbo, alla cui musica si era accostato alla Scuola di Testaccio.
Infine, fuori programma, Marco Manusso suona in duo con Giovanni Pelosi una “Big Bad Bill (Is Sweet William Now)”, che lascia immaginare che fra i due qualcosa bolla in pentola.
Quella di Mario Fales è una storia da conoscere, insieme a quella del Folkstudio. Lo diciamo sempre, no?, il passato va conosciuto. Dobbiamo sapere da dove veniamo, dove andiamo, e tutto il resto. Sì, sì, tutto giusto. Ma la ragione principale per saperne di più è che questa è una bella storia, e che ancora oggi è bello sentirla raccontare. Poter entrare in quella storia per una sera è stato un privilegio di cui essere grati a Ludovica, a Roswitha e a ciascun artista che è salito su quel palco.