“Una boiata pazzesca“: basterebbe la frase del ragionier Fantozzi per commentare la proposta di legge del deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli sulla “difesa della lingua italiana“. Questo però non basterebbe a farci capire i problemi che ha la nostra lingua, che hanno tutte le lingue. Intanto evitiamo il termine difesa, così caro alla retorica patriotarda, e utilizziamo quello di valorizzazione della lingua. Perché difesa ci porta a immaginare ipotetici attacchi all’identità nazionale, fa scattare meccanismi di chiusura che alla lunga logorano chi li applica e non gli altri. Valorizzare la lingua vuol dire non percepirla come un moloch immutabile nel tempo, estraneo a qualsiasi confronto o a qualsiasi contaminazione, come in effetti è stata l’evoluzione nei secoli della nostra lingua, dal “latino volgare” ai nostri giorni.
Ma il primo problema di una lingua sono principalmente coloro che definiamo madrelingua, cioè chi la parla dalla nascita come idioma materno. Ed eccoci quindi a noi.
L’italiano conta circa 800.000 parole, quelle straniere non superano le 9.000, appena sopra l’1% (dati Enciclopedia Treccani). Di questi 800.000 fonemi, una buona parte sono termini tecnici. Il vocabolario definito di base è di circa 6500 vocaboli, ma la maggior parte degli italiani non arriva a 2.500 vocaboli. Ecco, i primi nemici di una lingua sono gli stesso cittadini che non la conoscano e non la sanno usare. E qui possiamo andare con un elenco di gravi manchevolezze: due italiani su 3 non sanno formare una frase di senso compiuto; metà dei ragazzi sotto i 15 anni ha difficolta a capire un testo scritto; circa il 28% della popolazione tra i 18 e i 65 anni è considerato analfabeta funzionale (un dato che, in Europa, ci mette solo davanti alla Turchia); il 45% sbaglia l’apostrofo; il 34% il congiuntivo e il 31% l’uso della punteggiatura. È sparito ad esempio, in quasi qualsiasi scritto, il punto e virgola. Provate a chiedere il significato di termini come desueto, ossimoro, palindromo, vetusto ecc. Sarà un buon esercizio per capire lo stato della nostra lingua. Altro che vocaboli stranieri che l’imbarbarirebbero.
C’è poi il nuovo ma ormai esteso uso di faccine e altri segni per definire uno stato d’animo (uso che riduce ancora di più l’utilizzo della parola e comprime in un disegnato quella che la lingua potrebbe raccontare con più sfumature) e l’abitudine di fotografare cartelli, istruzioni, prezzi invece di prendere appunti. Così la grafia del 35% degli italiani è incerta.
Veniamo ora alla difesa della cultura italiana, anche quella alimentare, aggredita dalla “perfida Albione”, dallo “Zio Sam” e dai loro alleati. Cominciamo dall’abbandono scolastico, in Italia al 12,7%, tre punti sopra a quello europeo o dal dato della lettura di libri (e sappiamo quanto la lettura serva alla conoscenza della lingua). Solo il 41″ degli italiani sopra i 6 anni ha letto un libro nell’ultimo anno, dato che ci colloca nella parte bassa della classifica europea. Analizzando i dati 2019 (pre-pandemia) c’è una discesa della fruizione culturale da parte degli italiani dal 35,1% al 29,8%. Prendiamo poi gli Istituti Italiani di Cultura all’estero. Sono 83. Ricevono 12 milioni di euro ogni anno contro i 150 milioni di sterline del Regno Unito. All’Istituto italiano di Monaco lavorano in 5 persone, a quello francese, sempre nella capitale della Baviera, sono ben 19 gli addetti.
Quali politiche mettono in atto i nostri governanti? Basti dire che i nostri investimenti in campo culturale arrivano all’1,6% contro il 2,5 % livello europeo. Il governo Meloni, nell’ultima finanziaria, non ha fatto meglio di chi l’ha preceduta: dallo 0,5 per la cultura del 2022, allo 0,4 del 2023.
Tutti questi numeri rendono patetici i richiami a “stringersi a coorte” contro le potenze straniere che assalterebbero senza pudore lingua, cultura, cibo, usi e costumi del “bel paese”. Il nemico, un vocabolo che non mi piace, cerchiamolo al nostro interno. Ma si sa che questo non porta voti.