Da pochi giorni è uscito l’album forse più breve che chi scrive abbia mai ascoltato: le sette canzoni di Roots durano in tutto 25 minuti e 49 secondi, anche se valgono almeno doppio… forse perché è quasi inevitabile rimettere il disco da capo appena finisce.
A dispetto della copertina, che potrebbe far pensare a un live (…o forse a un ultimo commiato…), si tratta di un disco in studio.
Roots è l’ottava fatica discografica del sestetto di Knoxville (Tennessee), a ormai 14 anni dall’esordio, se includiamo anche il live del 2013 e un paio d’anni di pausa tra il 2015 e il 2018. E la parola “fatica” non è usata a caso, dato che tutti i dischi della band sono stati autoprodotti. Il che è curioso, perché non si direbbe che – nel Tennessee, quantomeno – manchi un certo mercato per musica come quella dei nostri “boss sporcaccioni”: una miscela (sempre più morbida, a dire il vero, come una grappa invecchiata in barrique) di Southern rock, soul e delicate ballate country, suonate con costante maestria e con i suoni sempre “giusti”. In realtà il suono dei Dirty Guv’nahs è sempre stato morbido, non ha mai avuto spigoli hard, neanche negli episodi più rock. Hanno sempre abitato quella terra di nessuno tra pulsioni rock, eleganza intimista country e afflato soul… che poi sta alla base di tutte le etichette (Southern rock, Americana, etc.) utilizzate nel tempo per tentare di descrivere il melting pot culturale multirazziale di quel posto ricco di stridenti contraddizioni che è il Sud degli Stati Uniti. Nel tentativo di esemplificare potremmo dire che suono e ispirazione non sono poi dissimili da quelli dei texani The Band Of Heathens, o dei conterranei Cadillac Three (che però risultano un po’ più “sanguigni”).
Roots inizia con la ballata country Sweet Old Tennessee (non esattamente imprevedibile dichiarazione d’amore per la madrepatria, guidata dalla chitarra acustica e il cui un hammond, lontano e flautato, ricorda la nostalgia del “lonesome whistle” di un treno, tanto caro agli autori del Sud (chi ha detto Johnny Cash?); l’assolo di armonica impone il suo sigillo identitario sul biglietto da visita del disco. No Way To Be, senza rinunciare all’hammond, mette subito in chiaro che tra le radici della band e del suo suono c’è la black music, e ricorda perché fin dal loro esordio i Black Crowes sono un riferimento costante per descrivere il lato più rock dei Governatori. Sulla stessa onda Don’t Do It (con Maggie Rose e Wes Bailey), mentre il resto delle canzoni sono sostanzialmente delle (belle, ben scritte e ottimamente interpretate) ballate, tra cui meritano una segnalazione il sapore seventies di Out On The Road, con la sua lap steel e l’evocativo inciso strumentale, la notturna Prodigal (strofa soul e ritornello senza batteria, guidato dal piano elettrico), la conclusiva – e davvero bella – Seeing All The Lines, che per una volta ricorda certe ballate terse del Jackson Browne maturo (come Sky Blue And Black, da I’m Alive del 1993).
Capolavoro? Disco immortale? Certamente no. Ciononostante, Roots resta un qualcosa di prezioso: un bel disco, suonato bene, pieno di belle canzoni, di quella musica scritta e suonata con il cuore senza troppe intermediazioni cerebrali, con arrangiamenti funzionali alle composizioni e l’unico obbiettivo di comunicare emozioni con il minor numero possibile di filtri, laddove togliere è sempre meglio che aggiungere. Un tuffo in una gloriosa tradizione dal quale la band di Knoxville emerge con un’ottima pesca.
Tracklist:
- Sweet Old Tennessee
- No Way to Be
- Out on the Road
- Don’t Do It (feat. Wes Bailey & Rob Ingraham)
- Save Me
- Prodigal (feat. Nate Dugger)
- Seeing All the Lines