Rockstar maledette, scansatevi, siete dei dilettanti, fate largo a Sua Maestà Rosa Balistreri. Nessun musicista può vantare una biografia “estrema” quanto la sua, e una maggiore compenetrazione tra parabola umana e artistica. Di Rosa Balistreri si parla e si scrive troppo poco. Per questo sia benvenuto questo volume edito da Giunti, nonostante la tiratina d’orecchi che meriterebbe per aver quasi nascosto il fatto che si tratti di un romanzo biografico e non di una biografia in senso stretto. Ma si tratta di un peccato veniale, perché Stefania Barzini si attiene alla bruta verità dei fatti mantenendo un lodevole equilibrio, senza scadere nel pulp che pure il vissuto dell’artista di Licata avrebbe consentito, limitandosi a punteggiare alcuni passaggi della vicenda umana con ipotetiche ed eteree riflessioni in prima persona, che forse nulla aggiungono ma di certo nulla tolgono al peso delle vicende personali dell’artista.
Nessuna tragedia umana è stata risparmiata a Rosa Balistreri: fame nera, povertà assoluta, malattia, tradimenti, aborti, violenze quotidiane, stupri, un tentato omicidio, il carcere per un furto istigato da un amante manipolatore, delusioni amorose, una famiglia che definire disfunzionale è un eufemismo, l’omicidio della sorella e il suicidio del padre. Ma Rosa Balistreri è stata un essere umano straordinario, dotata non solo di voce e talenti del tutto fuori scala, ma anche di una forza di volontà e di una voglia di vivere che nessuna delle summenzionate tragedie è mai riuscita a fiaccare. Al talento ed alla resistenza in età adulta si sono aggiunti la consapevolezza sociale e l’impegno politico, che hanno portato anche l’arte di Rosa a un livello superiore.
Rosa Balistreri non canta e non interpreta, Rosa Balistreri è un vulcano – indomito come l’Etna – che scaraventa addosso all’ascoltatore tutto il peso del mondo interiore di individui devastati ed abbrutiti dalla sofferenza di generazioni, senza alcuna speranza di riscatto, con l’unica prospettiva della mera sopravvivenza, senza mai essere in grado di scansare i colpi impietosi di una vita che di umano non ha nulla. Rosa Canta le donne sottomesse, picchiate e violentate ogni giorno, canta i talenti e le diversità umiliate, canta scheletrici bambini condannati alle miniere di zolfo per cui la morte in un crollo sotterraneo è solo una liberazione da una vita disumana. Ma anche la dicotomia lacerante tra l’amore viscerale per la propria terra e la repulsione causata dalla consapevolezza dell’impossibilità di trascorrerci un’esistenza serena e soddisfacente.
Rosa Balistreri non interpreta la Sicilia, Rosa Balistreri è la Sicilia, e si mostra al pubblico – a un certo punto attento e significativamente numeroso – senza nascondere nulla della sua storia, delle sue bellezze, delle sue miserie, delle sue spaventose contraddizioni. Raramente nella storia dell’arte vita e arte si sono fuse in un unisono così incredibile e struggente. L’intensità esecutiva ed interpretativa, la femminilità mai repressa, la sfacciataggine della vicenda umana e artistica – incurante di tutti i moralismi e le (pur rigide) convenzioni sociali – avvicinano Rosa Balistreri alle grandi blues queen afroamericane di un secolo fa, e non è peregrino definirla la più grande blueswoman italiana, se non europea.
Tutto questo emerge molto efficacemente dal libro, che ha il grande merito di rendere fruibile a qualunque lettore (anche a chi non parte con un interesse specifico per la Balistreri) una vicenda unica che merita di essere ricordata e raccontata, come le storie di vita, morte, amore, condanna e redenzione che così straordinariamente Rosa Balistreri ha interpretato.