Confesso che è un bel po’ di tempo che sono incartato su questa recensione, che oggi decido di portare a termine comunque vada, ammettendo la mia difficoltà a definire questo gioioso caos strutturato che è Friends of Mice, troppo folle e sorprendente per considerarlo soltanto un album di musica “tradizionale”, ma anche troppo roots per cercargli un posto in qualche altro scaffale.
Le note di copertina informano che il cd contiene quattordici tracce e che (quasi) ogni traccia contiene due o tre titoli: dei medley? Sì, se non fosse che il modo in cui sono assemblate le canzoni ha più a che fare con il pastiche, con un gioco di interpolazioni, con un continuo saltare dentro e fuori da forme e generi. Forme e generi che sono quelli delle musiche popolari fra le due sponde dell’Atlantico e che sono tutti ben rappresentati (il folk, il blues, le danze, New Orleans, gli States, la Gran Bretagna, la Francia, il Canada) ma la band gioca continuamente a mischiare le carte e a farsi beffe dei confini: la prima sorpresa è “Church Street Blues” insieme a “Never Tire of the Road” di Andy Irvine, dove i due brani arrivano non in successione come uno si aspetterebbe, ma “incastrati” l’uno nell’altro, tanto che il classico di Tony Rice diventa una ballata irlandese guidata dall’armonica a bocca di Matteo Pulin Profetto.
E si va avanti con la seconda traccia, dove fra una canzone irlandese e un tradizionale inglese s’infiltra Veronica Sbergia con un frammento di “Viper Mad” di Sidney Bechet. E così via, con “Viola Lee Blues” (la conosciamo da tante versioni, una fra tutte quella dei Grateful Dead) che diventa un capitolo di una trilogia irlandese, o con una bellissima terna (la traccia 7) in cui i brani hanno in comune l’andamento del waltz time e nient’altro, dal momento che si tratta di un brano hawaiiano, di una canzone americana di fine ‘800 e di un valzer di stampo francese che arriva probabilmente dal Quebec. In altri momenti, poi, troviamo work song che trasfigurano nella danza celtica, oppure “Ghost Woman Blues”, il blues pianistico di George Carter, che sembra venire dall’Irlanda per saldarsi con “Pua Lililehua” (hawaiana, di Kahuauanu Lake).
Se tutto ciò vi dà l’idea dell’estensione del campo nel quale si muovono, considerate che i Little Mice non escludono nemmeno qualche puntatina dalle parti di una canzone più autoriale, come “Come On Up To the House” di Tom Waits che qui diventa parte di un set di musica scozzese. Come se alla fine quelle forme e quei generi fossero, anche nelle loro differenze, parte di un’unica grande storia.
Tutto il gioco è condotto con misura, con capacità esecutive e creatività notevoli, l’arrangiamento e la registrazione sono curati fino in ogni singola giuntura fra i brani (sono trenta volte che ascolto in cuffia il momento in cui l’ultima voce del coro della gaelica “Mingulay Boat Song” diventa il violino di “Ashokan Farewell” di Jay Ungar, e mi domando: “ma come fanno?”).
Perché poi Friends of Mice puoi ascoltarlo in tanti modi diversi: prima lo prendi come un album di musica acustica che fa pulsare il cuore e muovere le gambe e poi, se vuoi, lo ascolti con l’approccio da nerd che va in cerca delle storie dei brani e si mette sulle tracce di tutte le sorprese disseminate lungo l’album, che sono tante, per un cd che sembra una grata celebrazione dell’abbondanza e della generosità della musica: quattordici tracce, nientepopodimenoche trentatré brani, un’ora e un tot di musica. E soprattutto una schiera di musicisti più o meno conosciuti, fra cui un campione formidabile del meglio che circola dalle nostre parti. Oltre ai cinque “Mice” partecipano quasi una trentina di ospiti, ora per un ruolo sostanzioso, ora per un breve cameo: Veronica Sbergia l’abbiamo già citata, anche Max De Bernardi dice la sua in due tracce, e poi Martino Coppo, Angelo Leadbelly Rossi, Luca Bartolini, Eliana Zunino e tanti, tanti altri.
Già la formazione base (con qualche variazione rispetto all’album precedente, del 2014) conta su una gamma amplissima di suoni: Giorgio Profetto suona la chitarra, il bouzouki, l’ukulele, il banjo a sei corde, il flauto irlandese, il marranzano (eh sì), Matteo Profetto l’armonica e l’ukulele, Antonio Capelli il violino, il mandolino, il banjo, Marco Crea la chitarra, l’organetto, lo xaphoon (uno strumento a fiato di bambù), Marcello Scotto le percussioni irlandesi come il bodhran e le ossa. Con tutti gli altri danno vita a un cd orchestrale, festoso e senza un calo di tensione.
Non vi basta? Beh, se siete così insaziabili — d’altra parte l’album arriva a ben nove anni dal precedente — vi piacerà sapere che Pulin e i Topini, nel quintetto base, intorno a Natale hanno distribuito su tutte le piattaforme streaming una raccolta di cinque brani intitolata Somehow Some Old Times.
Tracce
Church Street Blues / Never Tire of the Road
Love Will Ye Marry Me / The Cuckoo’s Nest / Viper Mad
Mingulay Boat Song / Ashokan Farewell
Viola Lee Blues / Páidín O’rafferty’s Jig / Old Hag You Have Killed Me
Going Back to Arkansas / 12th Street Rag
Hammer Ring / John of Badenyon / The Gravel Walks
Hanapepe Waltz / After the Ball / Valse Des Îles De La Madeleine
Careless Love / Out on the Ocean / The Blarney Pilgrim
Come on up to the House / Anniversary Reel
Ghost Woman Blues / Pua Lililehua
Plains of Boyle / Good Ole Rebel / Kitty’s Wedding
Tribute to Peadar O’Donnell / Northwest Passage
Oh Girl
Pick a Bale of Cotton / Rocky Road to Dublin