Da 45 anni Marc Jordan lavora come un artigiano della canzone, i suoi brani sono stati cantati da artisti importanti che ne hanno riconosciuto il valore della scrittura, tra questi citiamo, su tutti, Diana Ross, Rod Stewart, Cher, Bette Midler, Chicago, ma contestualmente Jordan ha badato anche alla propria carriera di cantautore ed ha prodotto quindici album a proprio nome, nel complesso pregevoli, di cui questo Waitin for the Sun to Rise ne è l’ultimo esempio.
Se in Both Sides (2019) aveva setacciato l’American songbook, in He Sang She Sang (2022) si era dedicato a duetti con la moglie, l’ottima Amy Sky, ora ci propone canzoni scritte di proprio pugno (e alcune con il produttore Lou Pomanti) tranne che tre brani altrui Everybody Wants Rule the World (1985 Tears For Fears) si avete capito bene!, The Downtown Lights (1989 degli scozzesi The Blue Nile di Paul Buchanan), The Moon’s a Harsh Mistress (1966 Jimmy Webb).
La bella e calda voce di Marc, il piano evocativo di Pomanti e gli accompagnamenti orchestrali pieni ma discreti, oltre a un paio di strumentali da soundtrack, ci regalano un mix di irresistibile calore adatto per le nostre wee wee hours.Non è jazz in senso stretto ma neppure AOR e cantautorato di impostazione Californiana, che lo rese famoso insieme ai vari Christopher Cross, Robbie Dupree, Bill LaBounty, nei ‘70/’80, piuttosto Jordan ha realizzato un disco per lo più da crooner e comunque da musicista globale poiché sa come manipolare la materia per realizzare un’opera luminosa che, a 75 anni suonati, aggiunge uno dei tasselli più fulgidi della sua lunga carriera.
Waiting for the Sun to Rise è un album ricco, a tratti piuttosto orchestrato ma sempre con grande delicatezza e gusto; si apre con The Last Buffalo che funge da ideale sipario strumentale per condurci a brani jazzati guidati dal pianoforte. Rio Grande, è il fulcro dell’album, è un inno a ciò che resta del mondo, e in mezzo troviamo un assolo vertiginoso del trombettista Randy Brecker (presente in altri due brani) che aggiunge lustro all’arrangiamento perfetto del produttore Lou Pomanti.
Splendida è anche Coltrane Plays the Blues che conferma l’attitudine di Jordan a calcare le strade del jazz anni ’50 a cui aggiunge una strofa in cui fa capolino lo stili degli Steely Dan. C’è poi la cover The Downtown Lights di Paul Buchanan, dei Blue Nile, in cui Jordan ambienta la sua versione in un mondo sotterraneo che si anima dopo l’orario di lavoro, un tempo popolato da amanti solitari e sognatori delusi. La title track si distingue per la sua calma nebbiosa e la deliziosa e lamentosa voce di Marc (mi ricorda molto le tonalità del grande Kenny White) scivola su archi lussureggianti.
Da lì in poi, l’album sembra riaccendersi con Frontier, un’altra breve traccia strumentale. Segna un cambio di ritmo con il suo arrangiamento orchestrale da film, guidato da ottoni e timpani per poi passare alla cover jazz di Everybody Wants to Rule the World dei Tears for Fears. Tell Me Where It Hurts è un altro grande momento dell’album, con un sublime assolo di pianoforte. The Moon’s a Harsh Mistress di Webb mette i brividi per come Marc l’affronta.
Aspettando l’alba … come suggerisce il titolo, lo stile dell’opera è un’immagine del tempo che scorre lentamente, come un fiume e noi ad occhi chiusi sogniamo mondi musicali infiniti che ci trasportino lontano dalle brutture dell’oggi. Molto consigliato.