Quando all’inizio del 2020 quest’album, il secondo di Lucio Corsi, cominciò a far parlare di sé, un elemento che balzava all’orecchio era qualcosa in quella voce che rimandava qua e là a Ivan Graziani. Che era un riferimento magari parziale ma per nulla campato in aria, considerato che l’autore qualche brano del rocker teramano ce l’aveva in repertorio, e considerata soprattutto una scrittura totalmente surreale e deliziosamente irriverente.
Certamente questo non fa di Lucio Corsi un emulo di Graziani, così come il talking blues di Senza titolo — bellissima pietra grezza incastonata in mezzo a una collana di canzoni dagli arrangiamenti curati — non ne fa un allievo di Dylan, né l’attitudine glam e il suo modo di stare davanti alla telecamera e sul palco ne fanno un altro seguace di Bowie. E però qualunque riferimento vi venga in mente non è per niente casuale, come Marc Bolan e Peter Gabriel che sono fra gli ispiratori (dal punto di vista del linguaggio scenico forse ancora più che da quello musicale) e fra gli amori dichiarati, in mezzo a molti altri e in mezzo al meglio della canzone d’autore italiana “storica”. Il fatto è che tutto quello che Lucio Corsi divora — ed è uno vorace veramente — diventa Lucio Corsi. Tutte le influenze, le reminiscenze, le memorie sedimentate, le citazioni più o meno consapevoli, fanno lo stile originale della sua scrittura, dove tutto si tiene in un modo quasi onirico: come nei sogni, quella molteplicità di riferimenti crea un universo in cui sfondi e ambientazioni si avvicendano, le cornici cambiano, ma alcuni elementi forti di continuità tengono insieme tutto.
Come quell’immaginario visuale che è così importante per Lucio Corsi, a cominciare dalle copertine, tanto che i videoclip collegati al disco sono qualcosa di più di videoclip. Sono quasi un album parallelo, composto con la complicità del regista Tommaso Ottomano: piccole opere pensate per comporre, tutte insieme, un film che completa quell’universo di storie che è Cosa faremo da grandi. Come il video della canzone del titolo, che diventa una storia sui doni del mare (dalle conchiglie a una chitarra ripescata con le reti), come “Trieste”, dove Lucio Corsi gioca ai Queen, persino con una chitarra che ammicca a Brian May e che non c’è nel cd.
Ancora, a tenere insieme tutto è il suo modo di giocare, è uno stile di scrittura che gioca con le parole e le metafore. È una voce che non è potente e altisonante come quelle dei suoi eroi, e nemmeno è addomesticata alla maniera che si usa ora, ma che cerca solo di essere al cento per cento la sua voce. Che è una voce ora riflessiva, ora intima, spesso fanciullesca e insolente, complice quell’aria da quindicenne e quell’inflessione grossetana che non fa nessuno sforzo per adeguarsi al birignao del pop.
E poi a tessere il filo che unisce tutto sono quei riff di chitarra che ti entrano in testa, è un suono generale pieno di riferimenti a quei primi amori musicali britannici ma che non si ferma lì. È, infine, la produzione di Francesco Bianconi e Antonio “Cooper” Cupertino, che entra in quell’immaginario con rispetto, che tiene insieme le chitarre e il pianoforte dell’autore con gli archi, il mellotron e il glockenspiel in modo assai efficace e originale.
Cosa faremo da grandi? segue l’album d’esordio Bestiario musicale — sebbene prima ancora la discografia di Lucio Corsi conti due EP, poi raccolti in un’unica uscita — e precede La gente che sogna, del 2023.
Tracce
Cosa faremo da grandi?
Freccia bianca
L’orologio
Trieste
Onde
Senza titolo
Amico vola via
Bigbuca
La ragazza trasparente