Il nuovo disco dei Lucero è un piccolo miracolo. Una di quelle ormai rare occasioni per urlare al cielo che il rock’n’roll è ancora vivo. L’eccezionalità non sta nella catena produttiva dei Lucero, che ci hanno abituati ad altissimi livelli di spontaneità e interventi a cuore aperto armati di chitarre distorte al posto del bisturi. Semmai, al contrario, stupisce come la band del Tennessee continui a migliorare e a non volerne sapere di rilassare i toni e i bpm delle loro canzoni. Questo nuovo Should’ve learned by now (“ormai avrei dovuto imparare”: è ipotizzabile un titolo più adatto a degli eterni loser del rock’n’roll?) non solo non fa eccezione nella loro onorevole carriera, ma tocca, forse, vette tra le più alte di un’avventura lunga ormai più di vent’anni, con la voce strafottentemente scartavetrata di Ben Nichols a raschiare il fondo del barile di anime esauste… che però forse hanno ancora la forza per alzare in alto l’ultimo bicchiere, o accendere l’ultima sigaretta. Alle chitarre sgranate e incuranti di Nichols e Brian Venable fanno da contraltare il pianoforte e l’hammond poetici di Rick Steff, a raccontare l’altra parte della storia, quella del rumore delicato e cristallino della parte pura di un cuore che si spezza. Una dinamica chiara in tutte le 10 canzoni di questo nuovo lavoro, ma soprattutto nella bellissima Nothing’s alright, che in altre mani si sarebbe potuta definire anche una ballata romantica, ma che nelle mani dei Lucero somiglia più a uno sputo di (poca) saliva e (tanto) sangue su un marciapiede sporco di una periferia dimenticata dalla speranza.
Riferimenti musicali? Garage, punk, la melodia rootsie di The Band ma anche dei Counting Crows e dei Soul Asylum degli anni ’90, con gli accordi minori messi nel posto giusto, senza sorprese, senza affettazione, senza dover fai vedere che sai comporre una canzone elegante con un sacco di accordi. Se altre band avrebbero trasformato il ritornello di Macon if we make it in una sognante apertura pop, con i Lucero è solo una rincorsa contro il tempo, grondante di sudore e whisky, coi polmoni che scoppiano mentre vedi l’ennesimo treno che parte stridendo senza di te, rimasto un’altra volta a terra, in ritardo e senza fiato. Lui arriverà a destinazione in tempo, tu resti fottuto, come al solito.
Trentasette minuti e cinquantanove secondi senza un solo calo di tensione: se non è un miracolo questo!
Il disco parte con un manifesto chiaro: One last F.U. (“un ultimo vaffanculo”) e non esistono momenti pastorali, riflessivi, non c’è tempo neanche per leccarsi le ferite. Se anche Springsteen in Born to run si fermava a prendere fiato con una ballata notturna come Meeting across the river o per un momento romantico come Jungleland, i Lucero qui non possono permettersi né l’una né l’altro: come Robert Johnson, hanno i segugi dell’inferno alle calcagna. Niente fermate, niente riflessioni intellettualoidi, niente concessioni alla raffinatezza che piace alla gente che piace, niente di niente. Anche nell’unico episodio lento del disco Drunken moon, quando lei se n’è andata appena prima del tramonto con la chiara intenzione di non tornare più, la domanda è dove ti troverà l’alba, perché di fermarsi non se ne parla neanche.
Il disco si chiude con una ballata sbilenca e texana fino al midollo, tra Neil Young e Aaron Lewis, con tanto di lap steel e fisarmonica across the border. Ma impossibile chiudere l’ascolto senza tornare a quel piccolo capolavoro di Nothing’s alright, vero manifesto del disco e ritornello rallentato che non fa prigionieri: “non va bene niente, ma ormai non ci penso più di tanto, all’aspetto che aveva mentre andava via fuori dalla porta, eravamo follemente innamorati, e lei non era mai stata innamorata prima, e io non ci penso più tanto”. Si, certo… a chi vuoi darla a bere?
Gente come i Lucero va solo ringraziata. Sopravvissuti da un’epoca lontana e apparentemente perduta, gruppi e dischi come questo ci riconciliano con l’anima vera del rock’n’roll. Quello senza lustrini, senza pizzo, senza abiti firmati, senza bisogno di stupire il pubblico con ridicole pose e provocazioni di “fluidità” sessuale con mezzo secolo di ritardo. Solo emozioni, fallimenti, chitarre, strada e testa più dura dei muri contro cui continua a sbattere.
Tracklist:
1. One Last F.U.
2. Macon If We Make It
3. She Leads Me
4. At the Show
5. Nothing’s Alright
6. Raining for Weeks
7. Buy a Little Time
8. Should’ve Learned By Now
9. Drunken Moon
10. Time To Go Home