Ljubomir Levčev
I passi dell’ombra, Bompiani Ed. Milano, 2021, pagg.359, Euro 20,00

Condividi:

Per la presentazione de I passi dell’ombra,  antologia italiana del poeta bulgaro Ljubomir Levčev, penso valga assolutamente la pena di infrangere la nostra regola aurea di attenerci alla recensione di volumi di poesia apparsi nel panorama editoriale italiano negli ultimi due anni.

Ne vale la pena, intanto perché parliamo di uno scostamento temporale irrisorio trattandosi di una pubblicazione edita nel 2021; ed in secondo luogo perché parliamo di una raccolta ultimativa, che ci permette di approfondire la conoscenza di un artista di straordinaria levatura – quale è appunto Levčev – ma non sufficientemente conosciuto sulla scena italiana.

Nato nella cittadina di Trojan nel 1935, Levčev è stato uno delle grandi figure della poesia bulgara novecentesca, esponente di una tradizione poetica importante, ma rimasta sempre piuttosto estranea alle proposte della produzione editoriale italiana, cosa che del resto vale per buona parte della poetica dell’est Europa, se si eccettuano i grandi nomi della poesia russa.

Insignito di vari riconoscimenti a livello sia nazionale che internazionale e figura estremamente poliedrica (autore anche di opere di narrativa e direttore una casa editrice), ha rivestito anche diversi incarichi ufficiali in patria, tra i quali quello di ministro della cultura dal 1975 al 1979.

Levčev è scomparso nel 2019, lasciando in eredità un cospicuo corpus di produzione poetica di pregevole caratura.

La scrittura di Levčev, testimonia un percorso in cui la poesia può ancora esprimere un valore testimoniale sul contemporaneo e sul mondo circostante ed in cui il poeta può ancora interrogarsi sulle sorti, sul destino dell’uomo in una dimensione ontologica, in opposizione al panorama prevalente nella poesia che si pratica oggi nel mondo occidentale, votata ad uno sterile intimismo lirico; intimismo, a ben vedere,  funzionale alla “grande normalizzazione” politica che ha anestetizzato le coscienze della “sponda ovest” a partire dall’indomani del crollo dei regimi socialisti e che ancora oggi imbavaglia in particolare la poesia (in particolare, poiché la sua tradizionale proprietà aedica l’ha sempre resa un lido periglioso per i detentori delle leve di controllo della comunicazione) svuotandola della capacità di leggere ed interpretare correttamente l’oggi e facendola piuttosto ripiegare nelle sabbie mobili dell’affermazione di presunti percorsi connessi ad un concetto fumoso di tradizione.

Per fortuna assistiamo anche ad alcuni tentativi di reazione a tale rinserramento della ricerca poetica, mediante un lavoro di amalgama di metalinguaggi o di canoni stilistici destrutturanti, in linea con la frantumazione degli schemi tramandati dalla stratificazione nei tempi lunghi dei decenni passati e la liquefazione dei mondi di significato tradizionali.

Quella che ci propone Levčev è invece a ben vedere, una sorta di terza via, nel senso che il suo registro linguistico appartiene morfologicamente al mondo del ‘900 e precisamente al filone della poesia narrativa, discorsiva: un canone stilistico che dunque fa ancora riferimento al secolo scorso, ma che nella storia della poesia – soprattutto di matrice anglosassone, che ne è stata la fondatrice –   costituisce da sempre un modello di decostruzione dei moduli espressivi consueti, nonché una risorsa di notevole arricchimento contenutistico anche nel senso dell’impegno e della denuncia sociale, avendo determinato una grande espansione del terreno della narrazione poetica.

Come ha giustamente evidenziato il critico Giorgio Linguaglossa, la poesia di Ljubomir Levčev è nuda, povera, per quanto concerne l’elaborazione formale e linguistica ed al tempo stesso necessariamente essenziale dal punto di vista stilistico, totalmente esente da qualsiasi sperimentazione o itinerario trascendente la semplice compulsazione attenta e puntuta di una storia che si tramuta poi nell’orizzonte della quotidianità.

Levčev oscilla pertanto nella sua scrittura, fra memoria ed osservazione critica di una società decadente, transitata senza un attimo di respiro, dalla decadenza del regime comunista, alla selvatichezza di un ordine finanziario capitalista, che spesso proprio in quelle aree, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, ha affermato il suo volto più spietato, quello della pura speculazione finanziaria.

Di fronte alla caducità della storia ed alla frantumazione degli ideali e delle categorie di pensiero ereditate dal passato, il poeta sperimenta dunque una sensazione di spaesamento, di straniamento, estrinsecata poeticamente con grande sincerità di intenti ed immediatezza comunicativa, quasi con la volontà di mostrare la sua incorruzione di fronte allo sfaldamento del tessuto storico; ecco dunque che la “nudità”, la “povertà” cui accenna Linguaglossa trova la sua cifra definitiva, nella sua volontà di mostrarsi indifeso rispetto ai rivolgimenti storici, per non deviare il periscopio dall’osservazione e rappresentazione diretta della realtà.

Levčev non fa altro che prendere atto di questa eredità di povertà e per quanto disilluso, avverte la necessità di restituircela così com’è, senza alcun orientamento soteriologico, che magari possa condurlo verso uno sviluppo metafisico della sua versificazione: per il poeta bulgaro, la morte civile della società è anche morte, o meglio svilimento, di qualsiasi tentativo di metafisica.

Ogni componimento di Levčev potrebbe essere letto in chiave musicale come dotato di una tonalità prevalente in base all’impostazione narrativa e contenutistica dei singoli brani poetici, per trasporre nella trascrizione questo suo senso di estraneità rispetto al mondo che lo circonda.

Il poeta è in pratica estraneo a sé stesso ed in questa aporia si cela il dramma della storia del mondo di questi ultimi trent’anni, rispetto al quale questo linguaggio poetico agisce da specchio, evidenziandone la propria solitudine o per meglio dire, emarginazione; emarginazione perché l’esito del silenzio è l’impossibilità di far comprendere la verità, se non (come la definisce sempre Linguaglossa) nella forma di ipoverità, vale a dire di una verità carente perché slegata da contenuti ontologici reali e mediata da schemi concettuali ormai irrinunciabili per i nostri simili, i quali di fronte all’incapacità di sviluppare un’attitudine resiliente, preferiscono zittire le sirene annuncianti il naufragio fintanto che riescono a galleggiare sulla linea dell’orizzonte.

Siamo di fronte dunque a quello che potremmo paradossalmente definire un lessico “silenzioso”, nel senso che le scelte linguistiche del poeta agiscono come bulino in grado di purificare gli incagli, le sbavature, i refusi di una costruzione testuale ormai convenzionalizzata e quindi politicamente ed intellettualmente esautorata.

In questo contesto, coerentemente alla sua impostazione di stampo musicale (da non confondere con la musicalità, che pure non è del tutto assente in Levčev in alcuni cambi di ritmo, in alcuni scatti improvvisi che la sua scrittura produce per evidenziare il peso, la decisività delle parole-chiave) questa silenziosità diventa fondamentale nella definizione del piano poetico, analogamente al valore della pausa nella partitura musicale: così come è questa a dare sostanza al corpus musicale, analogamente nella poesia di Levčev è l’ammutolimento della langue tradizionale, attraverso lo slittamento semantico della parole (per utilizzare i due concetti fondamentali della linguistica saussuriana) a determinare la cifra poetica, stilistica e concettuale della sua scrittura.

L’insegnamento di Levčev è emblematico per la poesia odierna perché la sopravvivenza stessa della poesia oggi, di fronte alle trasformazioni, ma anche alle turbolenze che stiamo vivendo, è legata alla sua capacità di destrutturare da un lato e riformulare dall’altro, la lingua, come strumento di rappresentazione del mondo, mimesi, pena l’annullamento del valore stesso della poesia e dell’arte.

 

Condividi: