La morte di un poeta ci rende sempre più poveri. In ricordo di Abdulah Sidran

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Non abbiate timore, cercate di resistere, noi siamo dalla vostra parte“:  Abdulah Sidran, in una intervista a un quotidiano francese, rilasciata nel 1992, pochi mesi dopo l‘inizio del conflitto in Bosnia, così si rivolgeva ai popoli d‘Europa. L‘umorismo di una delle figure più importanti della cultura bosniaca a cavallo fra il secolo scorso e l‘attuale è risaputo a tutti. Perfino nella sua morte Acdo, come lo chiamavano gli amici, ha involontariamente usato ironia: è deceduto il 23 marzo scorso. Il giorno prima, a Bruxelles, i capi di stato e di governo avevano approvato l‘apertura dei negoziati per l‘ingresso della Bosnia Erzegovina nell‘Unione Europea. Ma forse a Sidran, di quello deciso a Bruxelles, non importava più di tanto.

Siamo europei, siamo profondamente europei“ ripeteva come un mantra Acdo. “Senza l‘Europa non siamo nulla, ma senza di noi l‘Europa non esiste.“ L‘Europa di Sidra non era quella degli “euroburocrati“. La sua era l‘Europa delle tante culture a confronto: “nei Balcani, soleva dire, è sorta la civiltà del nostro continente. Qui si sono incontrate Roma, Atene e Bisanzio“.

Abdulah Sidran era nato il 2 ottobre del 1944 a Sarajevo. La sua avventura personale fa parte di quell‘epopea che, nel nostro continente, ha coinvolto tante famiglie. Una famiglia normale, dove per normalità si intende essere nel centro della storia di un secolo che, come nessuno, ha saputo unire grandi ideali a efferate atrocità. La prima è l‘uccisone a Jasenovac, per mano dei nazifascisti, dello zio paterno Abdulah, tipografo e compositore (di cui lo scrittore prenderà il nome) passando per il sogno tradito di una Jugoslavia federale e autogestita, dai lager di Tito (in quello di Goli Otok fu internato il padre) fino al lungo assedio di Sarajevo.

Sceneggiatore dei film di Emir Kusturica, “Ti ricordi di Dolly Bell?“ e “Papà… è in viaggio d‘affari“, vinse con il secondo la Palma d‘oro a Cannes nel 1985. Nacque una grande amicizia con Kusturica che si interruppe brutalmente quando il regista si trasferì a Belgrado e si converti alla religione ortodossa. Trasferimento e conversione che furono letti da molti come un implicito appoggio alla politica aggressiva dei serbi.

Sidran invece non lasciò mai Sarajevo, neppure nei momenti più bui e tristi dell‘assedio. Rifiuto perfino di andarsene con un aereo privato che gli aveva mandato proprio Kusturica.

Questa identificazione col dramma della capitale Bosniaca negli anni novanta del secolo scorso è stata la dominante di quasi tutti i suoi componimenti poetici.

Siamo assediati, tutti i giorno rischiamo di morire, ma ugualmente continuiamo a respirare la noia dei giorni normali. E‘ l‘unica difesa che ci permette di sopravvivere.“ Una intera generazione di artisti ha seguito Abdulah Sidran nella scelta di non abbandonare la sua città nel momento più drammatico.

Durante l’assedio di Sarajevo furono organizzati 3.102 eventi culturali, 177 mostre nelle sei gallerie cittadine, 48 concerti della sola civica filarmonica, 263 libri pubblicati, 156 tra documentari e cortometraggi e 182 première a teatro, con più di 2.000 spettacoli visti da più di mezzo milione di spettatori.

Ricordiamo Sidran leggere versi alla piccola Radio Zid, voluta dal docente universitario Zdrawko Grebo. Lo vediamo sul palco del Teatro dei Giovani e del Teatro Nazionale di Sarajevo. Lo ricordiamo seguire le peregrinazioni del War Teatar,  fondato nel maggio del 1992, proprio in pieno assedio. Senza una sede fissa, il War Teatar teneva performance perfino nelle abitazioni delle persone o nelle sale d‘attesa degli ospedali.

Abbiamo respirato grazie alla cultura, come i pesci lo fanno con le branchie“ diceva spesso Sidran. L‘autore di “Pianeta Sarajevo“, un testo imprescindibile per capirlo, capire la Bosnia e l‘Europa, ha trascorso buona parte dell‘assedio in uno dei tanti caffè cittadini. Uno in particolare sulla  Titova, vicino alla fiamma dedicata ai caduti durante la grande guerra partigiana. Un locale dove, con cura maniacale,  si preparava, e speriamo si prepari ancora, il miglior caffè turco di tutta Sarajevo. L‘aroma si percepisce a decine di metri  come una delicata essenza floreale.

Seduto a quel bar, guardando verso la fiamma, mi disse nell‘estate del’94: “La morte viene quando non hai più un destino comune. Senza i serbi non potrei respirare, senza i croati non potrei scrivere, senza essere me stesso non potrei vivere con loro.“

Concludo questo breve ricordo tornando all‘Europa che ha avuto sempre un posto di rilievo nei suoi pensieri: “Il fatto che l’Europa guardi e taccia è un crimine mostruoso nei confronti del nostro popolo, ma è anche un crac morale dell’Europa. Niente di buono può aspettarsi una simile Europa. Una simile Europa non ha destino futuro. E per quanto riguarda la morale e la democrazia noi non abbiamo da imparare nulla. L’Europa può venire qui a imparare qualcosa. Noi in qualche modo sopravviveremo l’Europa non so.”

Non ho volutamente presentato l‘opera di Abdulah Sidran. Le sue produzioni poetiche non vanno commentate ma lette. Fatelo, il più presto possibile.

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