Non è facile, in generale, trovare dischi che suonino freschi, spontanei e pregni di quell’urgenza espressiva che è alla base dell’arte, ma forse ancor più alla base del rock’n’roll. In alcuni ambiti è più difficile che in altri, vuoi perché l’estetica del genere richiede una sovrapproduzione in studio di registrazione che – volenti o nolenti – ammazza la spontaneità, vuoi perché in alcuni stili gli stereotipi sono più ingombranti che in altri o, ancora, perché – banalmente – ad artisti e fan del genere non interessa cosa si dice, ma solo il come lo si dice: quindi purché ci siano certi suoni, certe note e certe armonie va tutto bene, non importa quanto trito sia il risultato. L’”arco costituzionale” che va dal blues all’hard rock, con tutte le etichette e sottoetichette di genere, è uno di questi generi in cui, forse, solo un disco su dieci esce dal pantano di cliché, frasi fatte e il puro e semplice non avere niente da dire. Ecco, quindi, una pioggia di giri blues suonati con distorsione e metronomo al massimo, urlando al microfono trenta secondi di banalità sparsi qua e là come scusa per quattro minuti di assoli sulla stessa pentatonica (quando va bene); spesso col plauso di pubblico e critica.
Per questo motivo fa certamente piacere ascoltare dischi come questo, omonimo, del giovane (classe ’89) e riccioluto chitarrista del Wisconsin, che riesce a restare saldamente dentro al mondo hard blues di derivazione sostanzialmente Mountain (ma qui abbiamo più varietà stilistica rispetto al modello di riferimento, ritrovando ampi spunti che rimandano a Led Zeppelin, Black Sabbath e anche echi dei Guns N’Roses) senza mai annoiare, anzi facendo battere il piedino con composizioni fresche e vivaci, suonate con un’urgenza espressiva che rappresenta la proverbiale boccata d’ossigeno. Aiuta certamente la registrazione in presa diretta (e una produzione – quella di Eddie Spear – che ne mantiene l’impronta acustica e l’interplay tra Nichols, il bassista Clark Singleton e il batterista Dennis Holm): ma se la ripresa della batteria ci pare un po’ troppo sottile e anche annegata nei riverberi sgradevoli della stanza in cui è stata registrata è perché, assuefatti alle “big drums” delle grandi (e meno grandi) produzioni dell’industria abbiamo dimenticato come suona un rullante vero suonato da un batterista vero in una stanza vera. Ecco, questo disco offre un buon promemoria: una batteria picchiata da un buon batterista hard rock nella realtà suona esattamente così.
Non mancano certamente gli episodi più derivativi (Hard wired, Skin’n bone, Hallelujah), ma sono ben bilanciati da composizioni accattivanti, quando non avvincenti, come il terzetto iniziale My delusion, Easy come easy go (vero highlight del disco) e Down the drain (la cui strofa ricorda un po’ Black hole sun dei Soundgarden).
Le doti chitarristiche di Nichols non sono un segreto, se prima ancora di arrivare al terzo disco (che è questo) Gibson, tramite la sua sussidiaria “di lusso” Epiphone, gli ha dedicato almeno due diversi strumenti signature, e la Blackstar Amplification ha da poco lanciato l’amplificatore da lui progettato chiamato JJN-20. Parliamo di un chitarrista che – pur legato a una certa tradizione “fracassona” – non rinuncia a un approccio personale, tanto da decidere (a suo dire) di interrompere gli studi al prestigioso Berklee College of Music di Boston pur di preservarlo. Completano il quadro la decisione di abbandonare il plettro a favore dei nudi polpastrelli, e anche di usare chitarre (per lo più Les Paul, come la sua Old Glory, strano incrocio tra l’aristocratica Custom “Black Beauty” del ’55 e una “proletaria” Junior del ‘57) con un solo pickup al ponte, per di più con un P90 (modello a bobina singola, molto potente ma anche chiaro e dinamico) e non il classico humbucker (più scuro, compatto e potente). Ne risultano un suono e un fraseggio certamente caratteristici e interessanti. Ma, al di là delle doti chitarristiche, Jared James Nichols è anche di un ottimo cantante (perché senza un buon cantante vai da qualche parte solo se hai qualcosa di davvero importante da dire e lo dici come nessun altro al mondo) e buon compositore, che sa come far girare una canzone tenendo alte l’attenzione e l’adrenalina dell’ascoltatore.
Un disco per chi ama credere che il buon vecchio rock’n’roll zuppo di blues e saturo di distorsione e volume spaccatimpani non sia morto nel 1979 e non sia condannato a un eterno ritorno degli stessi imbolsiti fracassoni pentatonici a sei corde.
Tracklist:
- My Delusion
- Easy Come, Easy Go
- Down The Drain
- Hard Wired
- Bad Roots
- Skin ‘n Bone
- Long Way To Go
- Shadow Dancer
- Good Time Girl
- Hallelujah
- Saint Or Fool
- Out Of Time