Francesco De Gregori ama giocare. Ama giocare un gioco che ha delle regole, e però ama anche giocare con le regole del gioco. Ama giocare a cambiarle, e poi una volta che le ha cambiate gioca col giocare con le regole cambiate. È per questo che anche se lo hai visto tante volte dal vivo non è mai lo stesso concerto. E non è mai lo stesso De Gregori.
Ama giocare col suo mito, quel mito che ha evitato di essere finché ha potuto e quando alla fine ha dovuto prendere atto di esserlo diventato (che puoi farci, d’altra parte?) ha deciso che con la sua stessa mitologia poteva giocarci. E per dirne una, si gode la maturità facendo un disco con Checco Zalone. Che può piacerti o non piacerti, ma non è questo il punto. Il punto è un artista che non ha più niente da dimostrare e che si può permettere di smontare pezzetto per pezzetto quella mitologia, di farne un altro gioco da giocare.
Mitologia che si alimenta anche di quella vecchia storia che sia un artista scontroso e poco sorridente: ecco, il suo tour estivo (che si chiama così, semplicemente, “De Gregori dal vivo” e basta) gioca con quella storia. Così De Gregori porta in giro un De Gregori che si racconta, che dialoga col pubblico, un De Gregori ospitale e cortese.
Prendi quell’altra vecchia storia che lo descrive come un autore “ermetico”: è dall’inizio del tour che ci scherza su e ammette che, sì, forse chi lo definiva così qualche ragione ce l’aveva. E allora esci da casa per andare ad ascoltare il De Gregori ermetico confesso, e invece no! Stavolta lo senti farsi beffe di quella storia. Come quando imita la voce querula che gli domanda “ma insomma, Pablo è morto o non è morto? Non si capisce niente!”. “E se non capisci, allora non leggere niente!”, risponde. E attacca “Bufalo Bill”, con la prima strofa cantata a squarciagola sul pianoforte prima che tutto diventi una festa country rock.
E però gioca a spiegare le canzoni, perché magari non sarà ermetico, ma qualche volta qualche parola in più ci sta bene. Vi piace? Va bene così, finalmente con le didascalie? In fondo è un altro gioco di cui prendersi gioco, come quando introduce “Due zingari” spiegando secco: “due adolescenti innamorati e due camion che passano”.
Il tour estivo “De Gregori dal vivo” (e basta) è un gioco che non concede niente allo spettacolo facile. A parte che ringrazi il cielo che esista Paolo Giovenchi, che è un chitarrista che mai e poi mai vedresti mettersi lì sul bordo del palco a fare i numeri col tapping, che ormai per contratto stanno anche nelle serate di liscio: ma non c’è un momento in cui qualcuno degli otto artisti sul palco faccia qualcosa che non sia mettersi al servizio della canzone. Lo stesso Francesco, che è un cantante sempre più bravo e che diluisce quegli accenti dylaniani che ci piacciono tanto in un modo di porgere la canzone sempre più suo, lo stesso Francesco dicevo, che è chitarrista che potrebbe dar lezione a tanti, rinuncia quasi completamente allo strumento per mettersi lì, il microfono in una mano e occasionalmente la sigaretta nell’altra, a lavorare per dare valore a ogni singola parola delle sue canzoni. Ed è per quelle canzoni, non per qualche tipo di show, che quel gruppo è lì, e suona per fare musica come se fosse l’unica cosa che ha senso al mondo, e incidentalmente di fronte ci sono millequattrocento persone (sì, sold out in poche ore), e Francesco dialoga con loro come con i suoi musicisti, passeggiando rilassato per il palco.
Solo per “Generale” resta in piedi lì, fermo al centro del palco e della notte crucca e assassina. Perché oggi De Gregori gioca anche col suo corpo che paradossalmente è un corpo più libero di quello, contegnoso, di cinquant’anni fa, e che (anche perché libero dalle costrizioni dello strumento) è un corpo snodato, un corpo allegro, che esplora lo spazio circostante, che allarga le braccia verso il pubblico.
Il 30 luglio “De Gregori dal vivo” (solo così, e basta) è sbarcato a L’Aquila, nella cornice della gradinata della basilica di San Bernardino (che mentre il pubblico si gode lo spettacolo dei musicisti sul palco, quelli si prendono un coccolone alla vista della facciata di Cola dell’Amatrice), per la storica rassegna “Cantieri dell’Immaginario” e con la regia della Società Aquilana dei Concerti B. Barattelli. È arrivato con una scaletta che ha colto di sorpresa più volte chi era andato a studiarsi le puntate precedenti, e ha regalato una serata che assomigliava tanto al clima dei suoi concerti romani (vedere De Gregori a Roma è come vedere Pelè al Maracanà; no, di più, Pino Daniele a Napoli, e scusate se non mi viene un paragone più aggiornato ma vuoi vedere che non è un caso). Il clima era leggero, intimo, amichevole, era quello delle grandi occasioni (nelle prime file abbiamo scorto Luigi “Grechi” De Gregori e Renzo Zenobi; ah, e Bobo Craxi).
Naturalmente va detto che un pezzetto prezioso della serata è stato la presenza di Angela Baraldi, che già avevamo visto in tour con Francesco, quando è stato, forse trent’anni fa? Quattro brani per aprire le danze, solo lei e il chitarrista Federico Fantuz eppure non mancava niente (che bravo Fantuz a tirare fuori una piccola band dalle sei corde).
E poi entra il gruppo di De Gregori, un tappeto di suoni introduce la breve “Lettera da un cosmodromo messicano” e poi parte “Pianista di piano bar”, e poi via così. I brani vengono da periodi anche molto differenti, eppure la serata ha una compattezza e una unità narrativa specchiate, per via di un gruppo e di un suono che in Guido Guglielminetti (“anni fa ha fatto una scalata sociale ed è diventato capobanda”, dice Francesco) hanno il garante principale, anche negli anni e negli avvicendamenti dei musicisti.
Le presentazioni dei brani divertono il pubblico. “L’uccisione di Babbo Natale” è introdotta come una canzone “cupa, grandguignolesca, splatter”: la storia di Dolly (“cognome: Del Mare Profondo”) e del “figlio del figlio dei fiori” (“praticamente il nipote”) che in preda agli effetti di un fungo ammazzano a bastonate il simpatico ciccione si rivela “forse la parabola del movimento del ’68”.
Bella “La leva calcistica del ’68”, che inizia con la sola Telecaster che avvolge l’incipit più bello della musica italiana (“sole sul tetto dei palazzi in costruzione…”) prima che arrivino il basso e poi tutti gli altri. Bella “Come il giorno”, che metà pubblico canta in italiano e metà in inglese (è “I Shall Be Released” di Bob Dylan, “su un carcerato che si professa innocente, ma in fondo tutti quelli che stanno in galera un po’ innocenti lo sono”).
Bella “La donna cannone”, con Francesco che si muove quasi come uno chansonnier, bella “Pezzi di vetro” (il primo dei quattro bis), solo con voce e piano, che in questa veste appare come l’anello mancante fra il De Gregori folksinger e quello più melodico e orchestrale.
Bella “Anidride solforosa”, che ogni volta che Angela Baraldi canta su quel valzer sbilenco ti dici che Dalla l’aveva scritta per la sua voce senza saperlo. Bella “Rimmel” e bellissima “Buonanotte fiorellino” che manda tutti a casa sulle note del tema di “The Last Waltz”.
E belli Primiano Di Biase all’organo, Carlo Gaudiello al piano mezza coda e al piano elettrico, Simone Talone alla batteria e alle percussioni, Alessandro Valle alla pedal steel guitar, al mandolino e al banjo, Paolo Giovenchi alle chitarre, Guido Guglielminetti al basso (e molto altro) e Francesca La Colla ai cori.
E il gioco continua, e dopo domani è agosto e “De Gregori dal vivo” (solo così, e basta) riparte da Catania.
(Grazie alla Società dei Concerti Barattelli e a Luca Milani per le foto del concerto e della Basilica).
Setlist
Angela Baraldi:
A piedi nudi
Bellezza dov’è?
3021 Otello sulla luna
Mi vuoi bene o no?
Francesco De Gregori:
Lettera da un cosmodromo messicano
Pianista di piano bar
Atlantide
Bufalo Bill
Condannato a morte
Caterina
Due zingari
La casa di Hilde
Come il giorno (I Shall Be Released)
L’uccisione di Babbo Natale
I matti
Generale
Deriva
La leva calcistica della classe ’68
Sempre e per sempre
La valigia dell’attore
La donna cannone
Bis:
Pezzi di vetro
Anidride Solforosa (con Angela Baraldi)
Rimmel
Buonanotte fiorellino