Il titolo può far pensare ad un testo di tipo goliardico invece è foriero di una documentazione scientifica articolata e dettagliata che permette delle riflessioni molto importanti.
Nei vari capitoli l’etno-botanico Samorini indaga le specie più diverse: elefanti, gorilla, orsi, capre, gatti, renne, pecore, pettirossi e persino api, formiche, farfalle nella consuetudine di ingerire piante, funghi e radici dal fortissimo potere di alterazione sul sistema nervoso. In ogni capitolo si dedica proprio a dimostrare e dettagliare il rapporto tra questi animali e le loro capacità di discernere le sostanze in grado di fornire loro l’effetto gradito e per questo poi ricercato, nei termini quindi di un fenomeno naturale.
Uno dei temi più analizzati nel libro riguarda proprio l’intenzionalità animale nell’atto di drogarsi, il distinguere tra assunzione accidentale e intenzionale, smentendone il meccanismo omeostatico, infatti nel testo vengono dettagliate tutte le specie vegetali che gli animali scelgono con il preciso scopo di ottenere un effetto psicoattivo.
E’ proprio per imitare gli effetti “strani” ottenuti dalle specie animali dopo essersi cibati di particolari vegetali che sia le tribù arcaiche che il mondo preistorico scoprì il potere delle droghe vegetali.
Anche l’homo sapiens cercava «le sue droghe per ottenere uno stato di rilassamento, di benessere, di euforia» (Margaron, 2001), una pratica confermata persino dalla scoperta di bacche dal potere inebriante tra i resti di diversi insediamenti umani, individuati in vari luoghi della terra dalla ricerca paleo-etnologica.
Samorini contesta duramente l’antropocentrismo comportamentista della comunità scientifica che prevedeva l’impossibilità che gli animali siano dotati di “comportamenti esclusivi della specie umana come quelle di curarsi, di drogarsi, di avere comportamenti omosessuali, di essere dotati di una qualche forma di pensiero”.
In un capitolo specifico si pone espressamente la domanda perché animali e uomini si drogano, cita la Scienza degli stati di Coscienza, fondando il concetto che l’uso delle droghe risiede nell’intenzione di conseguire una maggiore comprensione della realtà non per fuggirla.
Infatti «nel mondo della preistoria tutta la religione era esperienziale ed era basata sulla ricerca dell’estasi tramite le piante» (Mc Kenna, 1991) nel senso di un’esperienza psichedelica (rivelatrice della mente) per cui è fondamentale la differenza tra allucinazione e visione.
Sottolinea l’importanza di un concetto della biologia o fattore di de-schematizzazione, definito da Edward De Bono, che ha la funzione di scompigliare i modelli consolidati, quindi drogarsi avrebbe una funzione biologica primaria non una funzione adattiva in cui, mentre la funzione del linguaggio è quella di consolidare i modelli, quella della de-schematizzazione ha lo scopo di uscire da quei modelli: un dispositivo liberatorio che libera da schemi, idee, divisioni, categorie e classificazioni definite.
Perchè le specie per preservarsi nel tempo e per essere in grado di evolversi soprattutto in risposta ai continui mutamenti ambientali devono andare oltre il principio di conservazione dotandosi di un fatto di de-schematizzazione.
L’autore sostiene che il problema droga nelle nostre società deriva dalla deculturalizzazione dell’approccio alle droghe, che deve essere mediato, come per tutti i comportamenti umani, da cultura e coscienza.
“Ecco, forse sono proprio le droghe una delle possibili strade d’accesso, le porte magiche verso quel mondo ultraterreno, al di là della morte, quel mondo che sicuramente esiste, che deve esserci.” (Luigi Caramiello,2003)